Un’architettura … cattolicissima … romana … (2)

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L’intrecciarsi della vicenda professionale con quella di alcune delle più cospicue occasioni architettoniche della nazione, dalla Banca d’Italia al “Palazzaccio”, per intenderci, fa poi di Calderini e di Koch i testimoni e gli interpreti di una delle stagioni cruciali di quella cultura architettonica che, a cavallo tra i due secoli, vide la nascita, la maturazione e la decadenza anche di un’idea di città, e perciò stesso di architettura, che, fatti salvi i principi fondamentali di un raccordo profondo con la storia e la tradizione, consumò nel volgere breve di pochi lustri, teorie e modelli, tipologie e immagini, prima ancora che tutti questi elementi fondanti potessero avere il modo di riverberarsi nell’immagine complessiva, nella rifondazione della struttura stessa di una metropoli efficacemente moderna.
Le mutevoli condizioni materiali e ideali alla base del rinnovamento istituzionale del nuovo Stato furono certamente alla base di un progetto che non poté non dirsi interrotto e che, mentre vedeva costuirsi, per frammenti e per parti inconcluse, un’idea di città e di metropoli incapaci di realizzarsi integralmente, pose comunque le premesse per un’evoluzione teorica ricca di fermenti e di intuizioni anche assai felici.
Calderini fu certamente interprete apicale di queste aspirazioni spesso rimaste tali, ma ebbe anche l’occasione irripetibile di portare a termine, pur tra le difficoltà infinite e i triboli a tutti noti, la realizzazione di una fabbrica straordinaria alla quale dedicò, negli oltre trent’anni del suo tormentato percorso, un parte cospicua della sua vita, in buona sostanza, gli anni interi della maturità e che resterà come uno dei maggiori contributi all’architettura europea del suo tempo.
Per Roma il lascito calderiniano tutto teso a ridefinire il rapporto dialettico tra la sua storia passata e quella che sarebbe dovuta essere la sua storia futura risultò particolarmente complesso, gravido di problemi diificilissimi da risolvere senza cadere nelle pastoie del tradizionalismo locale o nelle semplificazioni, spesso schematiche, della modernità alla moda, basterebbe pensare ai suoi progetti per i nuovi insediamenti nel quartiere Prati, per rendersene amplimente conto.
E questo rapporto difficile e complesso con la città, con la sua storia, la sua cultura, la sua memoria sembra essere la cifra essenziale di questo faticoso dialogo tra il vecchio e il nuovo, tra la modernità di un progetto politico, istituzionale, economico, tecnologico e sociale e la tradizione di un percorso storico ben altrimenti stratificatosi nei secoli, tra il “disordine” del passato e il nuovo “ordine” voluto ed imposto dagli ultimi conquistatori; problemi questi che attraverseranno poi tutto il secolo, dal “Palazzaccio”, alla Farnesina, fino all’Auditorium, sostanzialmente, i problemi di oggi.
I nomi e le personalità del Promis, del Selvatico, del Boito, del Poggi, dell’Alvino, del Cipolla, del Basile e che corrispondono, nella sostanza, alle diverse elaborazioni regionali che da Torino, a Milano, da Venezia a Firenze, da Napoli a Palermo da anni si accanivano sulla ricerca di una via alla modernità espressa attraverso i vari linguaggi dell’architettura, vennero evocati dagli allievi e dagli epigoni come riferimenti culturali e disciplinari indispensabili per dare forza e sostanza alle diverse scelte di “stile” e di “linguaggio”.
E così gli architetti e soprattutto gli ingegneri attivi in quegli anni, dal Canevari al Koch, dal Piacentini al Sacconi, dal Manfredi al Tatti, dal Cipolla al Pistrucci, dall’Azzurri al Leonori, dal Busiri-Vici al Passarelli, dallo Janz allo Street, soltanto per fare qualche nome, cercarono di coniugare con abilità professionale e passione civile la lezione internazionale con quella nazionale, di declinare le inflessioni dialettali della provincia accademica romana con la dimensione sperimentale dei nuovi materiali e delle nuove tecnologie, per inseguire forme e linguaggi rinnovati capaci di dare senso e congruità all’immagine della nuova edilizia romana. Gli stili storici si rincorrono, si intrecciano e si ricompongono più volte nel tentativo di distillare dai vari percorsi dell’eclettismo contemporaneo, nazionale e internazionale, un nuovo linguaggio comune per restituire universalità di significati alla nuova architettura ove non appare estranea neppure la lezione dei grandi maestri della cultura architettonica internazionale, dal Viollet-le-Duc al Polaert, dallo Schinkel al Garnier, dall’Hausmann al Sitte, al Semper, sopra a tutti.
Guglielmo Calderini fu tra i protagonisti di questa particolare temperie e i suoi contributi furono straordinariamente numerosi e soprattutto tra i più capaci di interpretare la complessità di una domanda di rappresentatività nazionale che non perdesse i suoi necessari e vitali raccordi con quanto la cultura di Roma fosse ancora in grado di suggerire. La sua conoscenza della più aggiornata cultura europea e allo stesso tempo la sua radicata formazione accademica gli consentivano infatti di costruire anche sul piano teorico quell’itinerario progettuale che poi gli sarà da guida nelle più importanti realizzazioni.
Soprattutto la “miseria e la pochezza” delle nuove tendenze contemporanee, delle nuove mode lo spinsero alla definizione di una teoria salda e capace di dialogare stabilmente con la storia. Le sue certezze “vitruviane” gli consentiranno perciò di non aderire alle mode fuggevoli di tanti suoi contemporanei che ai vizi tradizionali sembravano aggiungere anche quello di un’irriflessiva adesione alle mode più fatue.
La lezione calderiniana porterà poi anche Milani, Magni, Manfredi e Giovannoni a definire e a mantenere nei confronti dell’architettura quel solido e allo stesso tempo sottile atteggiamento “vitruviano” alieno dalle facili adesioni linguistiche, scettico nei confronti di infondate novità, profondamente radicato nei fondamenti ultimi e più intimi della costruzione edilizia che era certo in antitesi profonda con le allegorie avanguardistiche della modernità, via via, rincorrentisi anche in quegli anni lontani.
Solidità e bellezza, certezza e coerenza strutturale e tipologica, saranno così gli argomenti condivisi da intere generazioni di progettisti romani che affondavano le loro radici ultime negli etimi della classicità, intesa nel più ampio orizzonte di modello di comportamento etico, prima ancora che stilistico.
La ricerca di una intima coerenza tra l’organismo costruttivo e il significato profondo di un’opera architettonica, che pose quei progettisti a diretto contatto con la lezione dei Sangallo, di Michelangelo, dell’Alberti, fecero sì che quelle ricerche architettoniche si distinguessero, innanzitutto, su un piano metodologico quale rigoroso e maturo frutto della pratica del “ben costruire”.
La loro familiarità con la ricca e consolidata tradizione manualistica, di cui furono non certo solo gli anacronistici epigoni moderni (come avrebbero voluto i loro pur numerosi detrattori), quanto i naturali e logici prosecutori consentì a molti, non ultimo lo stesso Marcello Piacentini, di lasciarci testimonianze sicure di una indiscussa e matura capacità progettuale altrimenti e fortemente innervata anche nel contemporaneo.
Da questo ricco clima culturale nasce la nuova Scuola di Architettura romana che, per via diretta, attraverso Manfredi e Foschini giunge fino a Vagnetti che di quella eredità sentì sempre il peso e la responsabilità culturali. In tal senso, soprattutto, interessante il dialogo serrato con Foschini, che, vero padre spirituale di un’intera generazione, altrimenti e ancor più e forse ancor meglio di Giovannoni seppe farsi interprete di una proficua e mai smentita maieutica architettonica dialogante con le generazioni più giovani, specialmente quella cui appartenne lo stesso Vagnetti insieme a Muratori, a Fariello, a Vaccaro, a Moretti, a Luccichenti e che costituiranno insieme, nella scuola e nella professione, la testimonianza di una complessità su cui dovranno a lungo ancora riflettere le prossime generazioni.
G.M. 1999
(in G. Cataldi e M. Rossi (a cura di),
Luigi Vagnetti, disegni, progetti, opere”,
Firenze, 2000.)

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4 Responses to Un’architettura … cattolicissima … romana … (2)

  1. sergio1943 ha detto:

    Non possiamo fare altro che meditare, meditare e indignarci, meditare, indignarci e rammaricarci di aver distrutto in un amen tutta una Scuola. Lo so, il dopoguerra é stato un periodo terribile, la committenza, come sempre a Roma, era fatta da speculatori fondiari, le amministrazioni erano eterodirette. La scuola romana non poteva, di fronte a tante disonestà, che offrire l’onestà del proprio sapere e con il proprio agire offrire alla città, al di là della voracità dei committenti, pubblici, privati e religiosi, la migliore rappresentazione di se stessa. Poi…..poi abbiamo buttato via con l’acqua sporca un robusto ragazzino. Adesso camminiamo nel fango faticoso di quell’acqua stagnante e invece di un ragazzino che poteva diventare un intelligente giovanotto, siamo circondati da aborti e da feti deformi.

  2. pasquale cerullo ha detto:

    Da qualche parte bisognerebbe analizzare dove ritrovare le tracce della Scuola, non per eredità diretta ma per riflesso incondizionato.

    PS
    Le archistar NON rispettano lo spirito delle sette invarianti… (aaahh finalmente l’ho detto)!!!

  3. muratore (quello vero) ha detto:

    Ma che palle!!

  4. sergio 1943 ha detto:

    Muratore (quello vero)! Sapendo che fai un nobilissimo lavoro, applicati con impegno a lavorare di cazzuola e male-e-peggio e non perdere tempo a gironzolare su Internet. Come dicono in Cispadania: “Ofelè fa el to mestè!”

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