Un padre … architetto …

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Si è tenuto nei giorni scorsi presso l’ATER di Roma un convegno intitolato: Roberto Nicolini Architetto 1907-1977 … corredato da una piccola mostra e da un sobrio catalogo dal quale “rubiamo” l’appassionata testimonianza del figlio Renato che qui di seguito vi proponiamo: …

Roberto Nicolini: mio padre.
Roberto Nicolini era mio padre. Non posso dunque parlarne solo da studioso. Un figlio è un testimone privilegiato della vita del padre, e nel mio caso devo testimoniare non solo ammirazione e riconoscenza, ma anche conflitto. Come in fondo è giusto che sia, le due cose non si escludono.
Nella nostra famiglia, l’architettura e l’arte sono sempre state molto importanti. Anche mia sorella Nicoletta è architetto. Io ho due figlie, Claudia e Cecilia, che frequentano il Liceo Artistico, la stesso tipo di scuola che aveva frequentato mio padre…
Vorrei iniziare parlando del lessico famigliare dell’architetto Roberto Nicolini. Non so se sia l’espressione giusta, perché papà aveva perso l’udito da un orecchio molto giovane – in seguito all’epidemia di spagnola che accompagnò la fine della prima Guerra Mondiale – e questo lo portava a parlare poco. In compenso disegnava molto; e partiva dai disegni per raccontarmi le sue favole, che a me bambino sembravano splendide, di nani –il nano Tronchetto-, di animali e di uomini preistorici. Oggi penso che quei racconti mi portassero molto all’interno del suo modo di pensare, rivelandomi frammenti di quella regione del pensiero che Henry Corbin chiama immaginale  (regione intermedia tra la realtà e l’immaginazione, governata da regole condivise, qualcosa che vincola l’immaginazione ad una sorta di codice comune, impedendone l’arbitrarietà): credo valga non soltanto per le culture dei popoli, ma anche delle famiglie e delle persone.

Il padre del mio papà, nonno Giovanni, era scultore. Nato a Palermo nel 1872, era arrivato a Roma intorno al 1890, ai tempi del Governo Crispi (e, ahimè!, del trasformismo e dello scandalo della Banca romana), come tanti artisti siciliani di allora. Nel 1900 aveva vinto il pensionato artistico nazionale, ed era rimasto folgorato, mentre viaggiava in treno, dalla bellezza di una giovane belga in grand tour in Italia con la madre, nata ad Antwerpen, Marceline Colignon, che divenne sua moglie. Roberto, nato nel 1907, fu il secondo dei loro sei figli. La casa della sua infanzia fu il Villino Nicolini in via Fracastoro (oggi demolito) costruito da uno dei più famosi architetti del periodo, G.B. Milani. Nel giardino era ben visibile una delle sculture più belle di Giovanni Nicolini, L’idea, una figura di giovinetta che sembra sbocciare dalla pietra, assorta in meditazione ma già con le ali alla testa. Un’altra casa destinata ad influire sull’immaginale di mio padre fu sicuramente la villa di Sant’Agnello di Sorrento, dove la famiglia Nicolini, con i tre figli, Marcello, Roberto e Giovanni jr detto subito Nicchio, e le tre figlie Ortensia, Anna e Dora abitò sempre più a lungo a partire dalla seconda metà degli anni Venti. Costruita per mio nonno da un architetto – forse oggi un po’ in ombra ma di grande importanza – Alessandro Limongelli: tra gli architetti romani più interessanti degli anni Venti e Trenta per l’esaltata fantasia antichizzante, che rievocava (ed inventava) stilemi della Roma imperiale. In questo caso una costruzione con avancorpi laterali, sul modello del palazzo italiano, con giardino e terrazza, decorata con sculture e grandi vasi e aperta sul mare, con scesa al mare che arrivava fino a un antico Ninfeo romano – la cui bellezza era anche conseguenza del luogo e del paesaggio, soprattutto del rapporto con la roccia su cui sorgeva, qualcosa in cui il mare si presentava come una forza ctonia, della stessa natura dello strapiombo.

Dal padre scultore mio padre ereditò il gusto artistico allora prevalente in campo internazionale (penso alla Frick Collection a New York), che dopo Raffaello, Michelangelo e Tiziano elencava Velazquez e Van Dick, aggiungendovi – nel segno del quotidiano spinto fino al grottesco – a un’estremo il vecchio Brueghel all’altro il Goya dei Capricci. Un gusto prudentemente moderno, capace di apprezzare l’impressionismo e Rodin, ma che però esitava davanti a Picasso, e si chiudeva, come sospettando un inganno o piuttosto una ritirata dalla difficoltà tecnica e dalla lentezza nel lavoro artistico della tradizione figurativa, di fronte all’astrattismo.

Roberto si laurea alla Facoltà di Valle Giulia nel 1934, con il voto di 106 su 110. Nello stesso anno realizza il suo primo, importante, lavoro, il Monumento alle Tre Armi (Marina, Esercito, Aviazione) di Messina, vincendo un concorso. E’ un’opera di famiglia, perché lo scultore delle tre figure monumentali è Giovanni Nicolini. Sono salito su quel monumento nel 1997, per spiccare un salto verso il cielo (a modo mio, cioè col pugno chiuso) per annunciare ai miei antenati che stava per nascermi un figlio maschio, che si sarebbe chiamato anche lui Giovanni.
Nel 1936, assieme ad un altro giovane laureato, Giorgio Calza Bini, Roberto partecipa al Concorso per la quarta città di bonifica della pianura pontina, Aprilia, ottenendo non la vittoria ma riconoscimenti (quasi) altrettanto importanti, che finirono per lui per tradursi nell’incarico di progettare un’altra città nuova, Incoronata. Giorgio Calza Bini era anche lui “figlio d’arte”, di Alberto Calza Bini, segretario del Sindacato fascista degli architetti, presidente dell’Istituto Case Popolari, nel cui studio aveva a lungo lavorato Mario De Renzi (assieme ad Adalberto Libera, Mario Ridolfi e Luigi Moretti, uno dei quattro moschettieri dell’architettura romana del Novecento). De Renzi e Calza Bini abitavano – in piani ed appartamenti diversi, secondo gerarchia, De Renzi in una casa che aveva il grande soggiorno nel seminterrato ed occupava parte del primo piano con un angolo “viennese”: l’appartamento da notte, camera da letto matrimoniale, boudoir-armadio dei vestiti e bagno, Calza Bini nell’attico – nella stessa casa di via Eleonora Pimentel, costruita da una “cooperativa di artisti”.
Fu proprio ad una festa in casa  De Renzi che mio padre conobbe Concetta, cugina della moglie di De Renzi, Fernanda (la madre di Concetta, Enrichetta, e la madre di Fernanda, Ida erano sorelle). S’innamorò a prima vista e si sposarono. Così ho avuto la fortuna di chiamare, nella mia infanzia, Mario De Renzi “zio Mario”. Del loro matrimonio furono testimoni Mario De Renzi ed il fratello di mia madre, Cesare Ligini (anche lui importante architetto, e per me, ancor più linearmente, “zio Cesare”). Mario De Renzi aveva annunciato – se non ricordo male la tradizione di famiglia – che non avrebbe potuto esserci; e perciò era stato convocato Enrico Del Debbio, che, da gentiluomo qual’era, alla comparsa inattesa di De Renzi, cedette il posto, occhieggiando però dall’alto nella foto di nozze. Il padre di mia madre, Alfredo Ligini, era un’industriale – nelle forme che richiedevano ancora la perizia artigiana di allora- del legno. Si debbono ad Alfredo Ligini le opere in legno necessarie agli allestimenti delle prime Quadriennali romane al Palazzo delle Esposizioni (e credo sia stata questa l’occasione della sua amicizia con Del Debbio). Suo figlio Cesare, minore di mia madre, era anche lui –l’ho già detto- architetto. Di una formazione culturale diversa, però, da quella di mio padre: nonostante avesse frequentato anche lui il Liceo Artistico, nella sua biblioteca non c’erano solo libri d’arte, ma i saggi di Hegel sul mondo greco-romano, Pirandello, Bergson. Anche le loro idee politiche non collimavano: zio Cesare era il più a sinistra della famiglia; scandalizzando un po’ mia madre – e molto mio padre – votava socialista, per il partito di Nenni. L’immaginale non era lo stesso: ma quando i Nicolini ed i Ligini si riunivano, come si usava allora, a Natale ed il primo dell’anno, erano una sola famiglia nel segno dell’arte.

Il linguaggio del Monumento di Messina è nel segno del diffuso costruttivismo monumentale del 1934, che doveva corrispondere sentimentalmente, per il suo pathos, agli astratti furori di un giovane di nemmeno trent’anni. Il realismo figurativo convive (non diversamente da quanto testimoniano il concorso per il Palazzo dei Soviet, o, per non andare così lontano, le nostrane case del Balilla), con l’astrazione architettonica delle superfici pure, piane o curve.
Ben diversa maturità e coraggio rivela il progetto per il Concorso di Aprilia. Ne ho già parlato a un Convegno per i sessant’anni della città di Aprilia, segnalando la corrispondenza della disposizione planimetrica degli edifici della città, nel progetto Calza Bini – Nicolini, ai principi dell’urbanistica razionalista. I progettisti propongono con forza e chiarezza una forma aperta, che già contiene, indica, accenna i suoi successivi possibili ampliamenti. Molto diversa dalla forma chiusa del progetto vincitore del gruppo Petrucci; agli antipodi della pur bellissima soluzione di Adalberto Libera, che riduceva gli edifici pubblici della città sulla piazza alla triade casa del fascio – municipio – chiesa e li rinchiudeva con cinque metri di alberature, a garanzia di ogni ampliamento successivo che ne snaturasse il carattere di città arrestata (come un bonsai) alla dimensione antiurbana. Una città che non doveva crescere, fermandosi nel tempo alla dimensione di centro di una comunità agricola, che vi abitava solo la notte ed i dì di festa, il resto del tempo lavorava sui campi. La soluzione Calza Bini – Nicolini preferiva alla forma chiusa la forma indeterminata, governata dalla tipologia e dall’urbanistica razionalista. Più precisamente: lo stile del razionalismo italiano, nel segno della pace dopo le polemiche contro gli accademici del tavolo degli orrori esposto alla seconda mostra del MIAR, del recupero dei moderati del RAMI suggellato dalla facciata progettata insieme da De Renzi e Libera per la mostra del decennale della rivoluzione fascista (un allestimento effimero che sarebbe restato per due anni su via Nazionale). Piacentini non solo era trasformato in razionalista, e gli si affidava la regia della Città Universitaria, ma era indicato come loro capitano ai razionalisti progettisti di Sabaudia e della nuova Stazione Firenze da Mussolini che li riceveva a palazzo Venezia (per riparare allo sgarbato attacco di tre settimane prima di Farinacci alla Camera dei Deputati – “non vogliamo la Stazione di Firenze a via dell’Impero!”). Tuttavia nel progetto di Aprilia il linguaggio razionalista non arriva fino alla forma architettonica. Al posto del nuovo, troviamo il conosciuto, l’immaginale comune a chi lavora i campi, lievemente regressivo: la dimensione è piuttosto quella dell’aia che della piazza.
Mi sono spesso domandato quali ne fossero le ragioni: sicuramente un certo amore per il Medio Evo, tramite la città di Calvi di cui era Podestà, di Alberto Calza Bini era passato a suo figlio Giorgio. Fatto sta che una torre merlata è ben visibile sullo sfondo di uno dei disegni di concorso. Forse però la risposta appartiene anche al sentimento della natura proprio di mio padre. Nella biblioteca di mio padre –diversamente da quella di zio Cesare- prevalevano le immagini. Papà era come l’Alice di Lewis Carroll, manteneva un fondo di natura infantile che non gli permetteva nemmeno di concepire un libro “senza figure”. C’era una Divina Commedia, ma per le illustrazioni del Dorè. C’erano Le macchine inutili di Munari – che corrispondeva ad un altro aspetto di papà, la sua passione per i meccanismi celibi, improduttivi, un’inconsapevole spinta verso la patafisica di Jarry. C’erano La vita degli animali del Lessona (ed un volume spaiato della corrispondente Vita del Brehm, quello sugli Uccelli), un Manuale Hoepli sui Fossili ed un altro del naturalista raccoglitore. Una gioia sincera di fronte alle immagini, specialmente di fronte agli elementi più semplici della natura, la montagna, il mare, il cielo, le piante e gli animali. Certe forme del lavoro dell’uomo, come le barche, erano per lui naturalmente belle perché pensate in funzione della natura, delle onde, del mare. Nei suoi disegni la meraviglia sorge di fronte al pittoresco, ma soprattutto di fronte al quotidiano -che quasi involontariamente diviene simbolico. Al contrario, gli uomini che spesso compaiono nelle prospettive dei suo disegni sono schematizzati, come se il dominio del progettista potesse includere una previsione del comportamento degli uomini, ma dovesse arrendersi di fronte all’impero della natura e del tempo. Un’ombra di senso seicentesco, barocco, della vanitas, filtrato tanto dal barocco romano che amava quanto dalla tradizione fiamminga che la madre aveva portato con sé dalle Fiandre. Forse la convinzione che la progettazione architettonica dovesse muoversi su due registri, che avvertiva complementari, senza permettere all’uno di prendere il sopravvento sull’altro. Il primo è regolato dall’astrazione, quel reticolo prospettico che usa magistralmente in certi disegni del Trullo; l’altro (nel segno dell’umanesimo, qualcosa che a casa di mio nonno Giovanni era un’inconsapevole religione) dalla figura. Saranno altre forze a modellare gli uomini, a fissarne il carattere: la vita stessa, che l’architettura stimola e permette; o un altro artista, il pittore, lo scultore, come per i soldati del Monumento di Messina. Ma sulla definizione del carattere dell’uomo all’architetto non è consentito di intervenire. Questo era anche la conseguenza dell’introversione, che lo spingeva quasi a un colloquio solitario soprattutto con sé stesso, originata dalla sordità da un orecchio contratta da adolescente in seguito alla spagnola. Si esprimeva, come ho detto, piuttosto disegnando. O con lo sport, pugilato, canottaggio, anche se non al livello delle sorelle Anna e Dora che furono campionesse italiane ed europee, premiate con la medaglia d’oro del CONI da Mussolini, di velocità su pattini a rotelle.

La collaborazione con Giorgio Calza Bini proseguirà nel successivo concorso per la città nuova di Pomezia, sempre vinto dal gruppo Petrucci; ma si arresterà lì. Giorgio Calza Bini sarà progettista di una città nuova, anche se fuori della bonifica pontina, Guidonia; e parteciperà, firmandola anche lui, alla grande impresa della Palazzina Furmanik sul Lungotevere di Mario De Renzi, forse la più bella, sicuramente tra le più belle architetture, realizzate a Roma nel Novecento. Roberto Nicolini sarà il progettista di Incoronata, una delle “città nuove” di Mussolini (che recentemente non ha incontrato il favore di Pennacchi…).
R.N. (continua …)

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Una risposta a Un padre … architetto …

  1. manuela marchesi ha detto:

    La meravigliosa mescolanza delle arti e degli artisti fu una caratteristica del periodo. Gli architetti come i pittori e scultori, allora avevano una formazione di base comune, sapevano disegnare di figura, sapevano dipingere almeno di acquarello, avevano fatto montagne di schizzi dal vero su qualunque carta a disposizione, per farsi occhio e mano. Conosco questa commistione tramite mio zio Angelo Della Torre, nato nel 1903 e per generazione incluso in quel momento particolarmente vivace. Quando venne costituita la facoltà di Architettura fu tentato di lasciare il corso di pittura all’Accademia di Roma per iscriversi anche lui, con Ridolfi, Cesare Valle e altri, alla nuova facoltà. Invece continuò gli studi d’arte, in seguito collaborò in qualità di pittore e scultore con molti dei suoi ex compagni di studi e mantenne per tutta la sua lunga vita (è morto nel 2000) una ben radicata ottica razionalista unita a una struttura intimamente umanistica.

    …Passammo in macchina a Piazza Venezia la sera dell’Epifania del 2000. Si mise a osservare il Vittoriano, (il traffico era assai lento), lui che lo aveva definito con gli epiteti peggiori, come quasi tutti i suoi coetanei. Però a un certo punto gli venne da dire: “Ma lo sai, in fondo il tempo è un gran galantuomo, alla fine lo sai che non è poi così tremendo?”…

    Aspetto la seconda puntata dei Nicolini. Grazie

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