Casa dell’Architettura Edizioni
Giuseppe Nicolosi e il nuovo realismo romano.
Dobbiamo essere particolarmente grati a tutti coloro che hanno reso possibile la realizzazione di questo volume in quanto, per la prima volta e in forma esauriente, si riesce, attraverso la silloge dei suoi scritti, a fare il punto su una personalità complessa e avvincente come quella di Giuseppe Nicolosi.
Dal curatore all’editore, dagli eredi alle sovrintendenze archivistiche, tutti hanno collaborato alla ricostruzione e alla definizione di un personaggio che è la sintesi perfetta dei vari aspetti e di tutte le complessità di quella scuola romana della prima metà del novecento che non cessa di offrirsi quale occasione piena di scoperte e di vere e proprie sorprese a quanti finalmente ne affronteranno l’intricata vicenda al di fuori di facili scorciatoie e di ormai obsoleti filtri ideologici.
Anche e soprattutto grazie allo sforzo critico di Luca Arcangeli e della sua corposa ricerca di materiali e di documenti, finalmente, la figura di Nicolosi si staglia così netta sullo sfondo della vicenda romana contemporanea facendosi scoprire ricca ancora di suggestioni e di potenzialità; il cospicuo saggio introduttivo a questa raccolta di scritti ne è quindi una prima conclusione ed eloquente testimonianza insieme.
Gli anni della formazione del nostro protagonista-architetto sono quelli caratteristici di un clima di grande impegno culturale che impregna l’intero dibattito sulla cultura architettonica contemporanea e ci presenta una serie cospicua di personalità su cui appare ancora oggi del tutto doveroso riflettere. Senza scomodare i grandi nomi di Roma Capitale, gli eredi di Poletti, di Vespignani e di Semper, che come Calderini, i Magni, Sacconi, Pio Piacentini, Manfredi e Milani, prima, Giovannoni e Marcello Piacentini, poi, daranno corpo alla vicenda affascinate e complessa della cosiddetta “Scuola Romana”, non v’è chi non veda come l’alunnato del Nostro presso Alberto Calza Bini, Gustavo Giovannoni e Arnaldo Foschini non possa che essere stato più che determinante per la sua formazione culturale e professionale. Soprattutto, il rapporto con Calza Bini e con Foschini ci paiono assolutamente significativi per la formazione del giovane Nicolosi. Alberto Calza Bini col suo ruolo centrale nella definizione delle politiche di sviluppo del più importante ente romano dedicato all’edilizia pubblica, quell’I.C.P. che sotto il suo impulso si fece interprete delle più significative metamorfosi metodologiche dell’edilizia residenziale pubblica romana tra le due guerre traghettando magistralmente e con assoluta competenza l’ente affidatogli (affiancato in questo da tecnici di valore come Innocenzo Costantini), dalle dimensioni del barocchetto vernacolare del primo Sabbatini fino alla maturità razionalista ed internazionale che Nicolosi seppe interpretare, da par suo, nelle esperienze di Littoria, di Guidonia e delle diverse altre borgate romane. Altrettanto dicasi della lezione di Arnaldo Foschini, personaggio centrale della cultura architettonica romana per oltre mezzo secolo, dai tempi dell’Esposizione del Cinquantenario fino al piano INA-Casa, che seppe costruire magistralmente lo zoccolo duro di una scuola che proprio sotto il suo impulso fu in grado di raggiungere i momenti di più piena maturità. Nicolosi sarà al fianco di Foschini proprio negli anni cruciali, forse i migliori della nostra scuola, dalla fine degli anni venti alla seconda metà dei trenta, dimostrando anche con molti degli scritti e dei progetti ospitati in questo volume della maturità e della complessità dei temi allora affrontati in quello specifico contesto didattico. Non è un caso che da quell’insieme di sollecitazioni si siano altrimenti formate, oltre a quella del Nostro, le personalità di Luigi Moretti, di Ludovico Quaroni, di Saverio Muratori, di Francesco Fariello, di Mario De Renzi, di Giorgio Calza Bini, di Mario Ridolfi, di Adalberto Libera, di Gaetano Minnucci, di Carlo Roccatelli, di Giuseppe Vaccaro, di Bruno Zevi, di Vincenzo Monaco, di Amedeo e Ugo Luccichenti, di Mario Paniconi e Giulio Pediconi, dei Passarelli, dei Lapadula, di Leo Calini e di Eugenio Montuori, di Dagoberto Ortensi e di Gino Cancellotti, di Concezio Petrucci, di Luigi Vagnetti, di Pietro Barucci, di Federico Gorio e di Enrico Mandolesi, fino a quelle dei più giovani come Paolo Portoghesi, Paolo Marconi, e Gianfranco Caniggia e di quei tanti altri che hanno costruito, fuor di metafora, l’immagine e la sostanza più persuasiva e insieme ancora assai pervasiva della Roma contemporanea. Giuseppe Nicolosi si forma, si matura e si sviluppa in questo contesto ricco di suggestioni, di testimonianze e di atttori che, soprattutto dalla fine degli anni venti alla metà dei cinquanta, è stata capace di catalizzare e di introiettare quanto di meglio si producesse nel mondo complesso dell’architettura e della città contemporanee. Una cultura, quella romana alla quale Nicolosi porta il suo lungimirante apporto di conoscenza e di sperimentazione senza tralasciare mai la correttezza di un comportamento metodologicamente ineccepibile da vero giovane “maestro” di una modernità fatta anche di capace riflessione sulla storia e sul suo potenziale di riverberazione sul mondo contemporaneo.
Sfogliando i suoi scritti e i suoi reportage fotografici troviamo così uno studioso appassionato di storia antica e soprattutto medievale che intreccia le sue ricerche con un’attenzione scrupolosa alle vicende della più avanzata sperimentazione internazionale, soprattutto mitteleuropea e tedesca, in particolare, e che segue con attenzione l’andamento del contrastato dibattito sulla modernità con specifiche tangenze all’opera francofortese di Erst May e a quella viennese, di Bernard Rudowsky.
E come in questi è chiara, anche in Nicolosi, la precipua volontà di rintracciare le origini antropologiche più profonde e allo stesso tempo di liquidare per intero una storia che fosse mera celebrazione del passato, ma considerandola, invece, strumento attivo per indagare il significato più alto e recondito dell’abitare, negazione, quindi, radicale di un’architettura fine a se stessa. Una ricerca capace quindi di inseguire un punto di fuga e di partenza che raccogliesse e distillasse gli umori di intere generazioni di intellettuali europei e che sintetizza metaforicamente il senso più radicale della modernità esorcizzandone i significati primari nel rogo delle false certezze del presente. Sintomo di un disagio, di un disgusto e di un rifiuto della contemporaneità nelle sue forme più abbiette e corrive che allo stesso tempo contiene al suo interno una sofisticata anticipazione di quell’idea di “viaggio” di cui restano testimonianza affascinante le tante riprese fotografiche effettuate dal nostro architetto durante tutto il corso della sua lunga esperienza. La sua è una vera e propria ricerca delle “radici” (alla maniera di Schinkel e di Corbu) che, scavando verso un suo specifico “urgrund” disciplinare diventa, come spesso avviene in questi casi, occasione per un lavoro su se stessi, sul proprio modo di pensare e di vedere le cose, il progetto, la casa, la chiesa, l’organismo, la città, l’architettura, l’urbanistica, il mondo. Ci si trova così di fronte ad una specie di vorace antropologo dell’abitare (cioè dell’esistere e quindi del vivere e del sopravvivere) che indaga a suo modo, anche con l’occhio del fotografo, i modi diversi di un vivere “primitivo” e contemporaneo insieme e ne trae insegnamenti per un progetto spogliato, per il possibile, di ogni soggettivismo e che tenta di raggiungere una forma sempre più sofisticata di oggettività.
I diversi servizi fotografici sul Partenone, su Delfi, Corinto, Epidauro, sull’Egitto, sull’architettura rurale svizzera e slava, sull’architettura minore portoghese o nord africana significano appunto di questa sua inesausta curiosità di perseguire una verità profonda fatta di primitivismo e di cultura, di essenzialità e di semplicità razionale e simbolica insieme.
Evidentemente, in questo suo operare e riflettere sul passato, molti sono i punti di tangenza con quella straordinaria occasione che fu, per la nostra cultura, l’esperienza della mostra sulla “Architettura Rurale Italiana” curata da Pagano e Daniel per la Triennale milanese del ’36. Mostra che fu anche motivo per una profonda revisione critica delle futuristiche e un po’ utopiche e acerbe certezze di tanto ingenuo e macchinistico funzionalismo e che apriva, con largo anticipo, agli argomenti di un nuovo “realismo” critico già in parte cospicua elaborato criticamente da Plinio Marconi sulle pagine di “Architettura e Arti Decorative” e del quale successivamente Piacentini e Ponti, prima, e Rogers, poi, furono, ciascuno a suo modo, interprete e protagonista. Scriveva Giuseppe Pagano nell’introdurre quello storico catalogo: “Questo immenso dizionario della logica costruttiva dell’uomo, creatore di forme astratte e di fantasie plastiche spiegabili con evidenti legami col suolo, col clima, con l’economia, con la tecnica, ci è aperto davanti agli occhi con l’architettura rurale. … la reazione al formalismo accademico dell’Ottocento e l’indagine obiettiva e realistica che anima il mondo moderno come una imperativa opposizione della ragione contro la retorica dei tabù decorativi; la stessa abitudine morale dell’architetto contemporaneo di sottoporre la propria fantasia artistica alle leggi dell’utilità, della tecnica, dell’economia senza tuttavia rinnegare il fine estetico della sua fatica; … ci fanno superare ogni ritegno nel ricercare una dimostrazione storicamente documentata dei rapporti intercorsi tra l’architettura dei libri di storia e il soddisfacimento delle più semplici e meno vanitose necessità costruttive realizzate dall’uomo, con uno spirito di meraviglioso primitivismo“.
Da questa sua profonda conoscenza del mondo dell’architettura di tutti i tempi Nicolosi matura quindi una personalità assai sensibile ai significati che la nuova edilizia dovrebbe esprimere una volta superati gli steccati accademici e metodologici che ancora ne inibiscono il valore più profondo e, fin dalle sue prime prove, ci lascia una serie impressionante di testimonianze in tal senso. Le sue costruzioni alla Garbatella, a Littoria, a Guidonia, al Tiburtino solo per citarne alcune ascrivibili al periodo di collaborazione con l’ICP calzabiniano, già ci segnalano la presenza di un progettista di grande e maturata sensibilità, attento al tipo e al linguaggio, alla morfologia e al dettaglio tecnologico e capace di realizzare alcune delle architetture più significative nel contesto romano di quegli anni. Sono esperienze importanti e spesso esemplari dove le difficoltà del tema e delle specifiche contingenze economico-contestuali sembrano suggerirsi, di volta in volta, quale pretesto per una sfida progettuale che, nel suo sempre rigoroso understatement, trova alimento e occasione per una nuova sfida concettuale. La proposta di concorso per viale Aventino e quella per la scuola aereonautica di Rieti come pure la realizzata casermetta di Guidonia sono poi l’occasione per approfondire il tema della “tipologia” sperimentata nel senso più maturo e rigoroso del termine e un’altrettale attenzione all’uso del materiale edilizio, il laterizio in particolare, che apriranno ad ulteriori sviluppi della sua già perspicua sensibilità materica. Argomento che troverà poi l’occasione di esprimersi con ulteriori forme di approfondimento nei numerosi incarichi religiosi che impegneranno Nicolosi negli anni a venire; a partire dal bellissimo ampliamento del Collegio santa Maria a viale Manzoni, dove un primo approccio con lo spazio sacro viene risolto attraverso una straordinaria e rigorosissima compostezza compositiva, per passare poi alla chiesa dell’Immacolata a Terni, al San Sabino di Spoleto e al San Policarpo al Tuscolano, tutte esperienze di grande maturità espressiva ove l’uso della muratura mista raggiunge i livelli più alti ed espressivi. Si tratta, infatti, di tre edifici di una qualità, anche realizzativa altissima ove il nostro progettista sintetizza un suo specifico punto di vista sull’architettura restituendoci alcuni saggi di vera e propria “sapienza” costruttiva. L’Immacolata, San Sabino e San Policarpo, ancora oggi che, spesso a sproposito, si fa un gran parlare di architettura religiosa rappresentano un punto di arrivo insuperato nella definizione sia etica che estetica dello spazio sacro contemporaneo. A questi tre splendidi edifici religiosi si affiancano poi l’Aula Magna e l’Istituto di Anatomia dell’Università degli studi di Perugia e la banca di Pavia che costituiscono, ciascuno di per sé, ancora altri tre momenti esemplari della ricerca di un corretto rapporto tra preesistenza e nuova architettura che dovrebbero essere sempre portati ad esempio per questo tipo di interventi. In particolare, l’esperienza umbra di Giuseppe Nicolosi ci sembra rappresentare, in termini veramente esemplari, un ritrovato rapporto tra le dimensioni del progetto architettonico e quello urbano e tra le dimensioni, anche materiali, della preesistenza e quelle di un intervento contemporaneo capace di dialogare in profondità con la storia e la morfologia dei luoghi. Ancora e più in particolare il caso perugino che ha visto il nuovo ateneo radicarsi osmoticamente con le strutture preesistenti fa emergere, al di là di ogni ragionevole dubbio, anche la qualità di un rapporto di organica intelligenza tra il progettista e la committenza, in questo caso tra il rettore Ermini e l’architetto Nicolosi, già una prima volta insieme come giovanissimi allievi nel citato collegio romano e che hanno ancora condiviso, portandola a temine con successo, una delle vicende più esemplari, e peraltro non abbastanza pubblicizzata, della cultura architettonica ed urbanistica della seconda metà del Novecento nel nostro paese.
Per concludere, ci piace citare sinteticamente un paio dei tanti passi di questa antologia dove l’autore ribadisce il senso di una continuità che non è affatto negazione del presente, ma organica articolazione di una rinnovata attitudine alle forme contemporanee del progetto: ”L’insegnamento che tutti noi architetti potremmo trarre dalla genuinità dell’architettura minore, che nasce dalla utilità e dalla spontaneità, è appunto questo: che attenuando i nostri schemi formali precostituiti, la nostra personalità, lungi dallo scomparire, risorgerebbe – in ogni problema umano risolto – sempre la stessa e pur sempre ricreata, ringiovanita dalla piena aderenza della vita. In particolare non sacrificheremmo la nostra personalità se rinunciassimo a quei virtuosismi e funambolismi con i quali ogni architetto cerca di mettersi in mostra rispetto agli altri, aspirando ognuno a gareggiare con un Niemeyer; un Gaudì o con il Le Corbusier della chiesa di Ronchamp; una specie di divismo che ritarda ogni giorno di più, da noi, il farsi di quel linguaggio corale da cui soltanto dipende che la nostra architettura e la nostra urbanistica di massa, anziché essere dominata dall’esibizionismo, si risolva con modestia e naturalezza, con umanità, in un ambiente organico ed espressivo della civiltà.” …
E altrove: ”… se si avrà il coraggio di sfrondare il vecchio albero della tradizione da tutte le sue ramificazioni inaridite e si faranno gli innesti sul vecchio tronco, se necessario per raggiungere la linfa viva, fin sulle radici, si avrà una prodigiosa fioritura. Nessuna delle nuove foglie e dei nuovi rami riprodurrà la forma e la configurazione degli antichi; ma sarà sempre lo stesso albero dell’architettura italiana.”
G. M. 12.12.12
in: Luca Arcangeli (a cura di), GIUSEPPE NICOLOSI: Scritti 1931-1976,
Casa dell’Architettura Edizioni, Latina, 2013.