DALLAFINESTRA

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12 Responses to DALLAFINESTRA

  1. stefano salomoni ha detto:

    L’importante è non guardare oltre: un capannone nelle campagne italiane si incontra senza troppa fatica.

    • Pietro Pagliardini ha detto:

      Questo sì che è quello che si dice “vedere il bicchiere mezzo vuoto”!!
      Non è sufficiente godere della bellezza di quello che si vede? Si deve per forza immaginare il brutto che c’è senz’altro dietro o comunque non lontano?
      Atteggiamento diffuso il suo, che mi pensare che questo paese abbia perso del tutto l’ottimismo e una visione positiva della vita. Ma forse esagero, era solo una battuta.
      Pietro

  2. pietro pagliardini ha detto:

    Sbaglio o siamo nella zona di Lucignano?
    Estratto di pura Valdichiana, anche se i campi in primo piano hanno perduto le siepi che dividevano i campi e non ci sono più le viti maritate. Però, tra Lucignano e la strada che conduce da Arezzo a Foiano c’è ancora, non so come, un relitto di campagna storica. Speriamo duri.
    In effetti, invece che dare contributi all’agricoltura sui prodotti sarebbe maglio darli per conservare i campi com’erano, come un grande parco agricolo. Certo, non tutta la Valdichiana, ma credo che non sarebbero soldi gettati al vento e penso che ci sarebbero ritorni economici sia per i prodotti di qualità che per il turismo.
    Saluti
    Pietro

  3. biz ha detto:

    mi pare che la collina che si vede a destra nella foto sia piantata a “rigatino”, modo molto criticato dal Sereni. (favorisce l’erosione)

  4. giancarlo galassi ha detto:

    Non c’è bisogno, Salomoni, di cercare capannoni. Non possono ignorare, almeno gli occhi di chi è architetto, che quel paesaggio dal finestrino è pesantemente segnato dalla produzione industriale – un capannone en plein air – e da un paio centinaia di anni non più legato a una condizione ‘preintensiva’ di conduzione della campagna.
    Il bicchiere mezzo vuoto è che questo paesaggio non ha niente a che fare con quello sullo sfondo dei quadri rinascimentale per quanto una sommaria cultura giornalistica, la più diffusa, li accomuni e romanticamente (giustamente, non so quanto ingenuamente) lo salvaguardi.
    Mi viene in mente la fatica di Tonino Guerra (quello dell’ottimismo, a proposito) per riuscire a essere accolto a Pennabilli, dopo dissidi con i santarcangiolesi, e realizzare lì una sorta di parco, più poetico che botanico, con almeno tutte le piante da frutto scomparse dalla nostra campagna recuperate come reperti archeologici in tutt’Italia negli anfratti abbandonati dai contadini perché impossibili da raggiungere con i trattori.
    Come Pagliardini sogno una mummificazione del paesaggio in un “parco agricolo” a dimensione territoriale. Ma come mantenerlo? Quanto costerebbe?
    Non si tratterebbe certo del giardino all’italiana di Villa Pamphili.
    E soprattutto: quale punto di vista? Dal palazzo vescovile di Pienza per una ventina di chilometri di raggio?
    Ingollare il bicchiere mezzo vuoto e via andare. Se mezzo pieno, mezzo pieno di grappa, una robina forte per elaborare il lutto.
    Prosit, Pietro.

  5. sergio43 ha detto:

    Scusate se intervengo sempre con i miei ricordi. Chiedo venia. Come ho detto, oramai in pensione, ho molto tempo libero. Considero questo blog come il salotto di casa dove parlare e cazzeggiare (ho appena letto che il cazzeggio era il metodo fondamentale degli sceneggiatori del momento più fecondo del cinema italiano. Più cazzeggiavano, parlando di tutto e di niente, e più venivano bene le loro storie di cui non possiamo, a tutt’oggi, non ricordare trame e battute).
    Le mie Marche, soprattutto quella fermana, mantemgono “quasi” intatto il paesaggio che Tullio Pericoli ha ‘sì fantasticamente saputo raccontarci. C’è una balconata dalla piazza del Comune di Petritoli che mi commuove ogni volta. L’estate scorsa ho conosciuto al mare una giovane coppia californiana. Innamorati dell’Italia e con i pingui guadagni della loro Silicon Valley, avevano comprato nel Comune de Lapedona un palazzetto. Mi hanno chiesto di venire a vedere il cantiere, mi hanno chiesto qualche consiglio che ho dato volentieri, soprattutto quello di toccare il meno possibile la disposizione interna. Ma oramai l’errore catastrofico era stato fatto! La stanza d’angolo, affacciata verso lo spettacolare paesaggio collinare e lo spettacolare “patchwork”, per dirlo nella loro lingua, dei campi, era stata suddivisa in bagno e bagno di servizio, decorati di una incongrua, per i luoghi, ceramica di Vietri da loro comprata, con ottusa soddisfazione, su e-Bay! Ho aperto loro gli occhi! Quella stanza, trasformata in living e dining room, così mi capivano, non avrebbe avuto bisogno neanche di un quadro! Bastava tenere aperti gli scuri e le persiane delle due finestre per avere un paesaggio mutevole ad ogni ora del giorno, della notte e delle stagioni! Di fronte alla loro mortificazione, li ho consolati che, comunque, nel momento del bisogno, sarebbe stato di molta soddisfazione corporale sedere e mirare l’interminato spazio di là della finestra. In questo modo ho fatto loro conoscere anche il Leopardi! Eh, diavolo! Sono simpatici e benvenuti in queste lande ma si debbono dimenticare il Far West!
    Parlavo dei miei ricordi! Mio nonno, e la sua famiglia prima di lui, era stata da cinquant’anni a mezzadria di un conte locale. Durante le lunghe estati avevo percorso in lungo e largo quei campi che confinavano con la costa. Per proteggere i campi dai venti di mare erano state piantate, tanto tempo prima, delle lunghissime ed altissime siepi di tamerici. Sull’altro lato della Provinciale, verso monte, un’altro confine era segnato da una verdissima e foltissima siepe di alloro. Un vertice della proprietà era segnato da un bosco di alte querce che dava il nome alla località. Era conosciuto come “Le Cerque de Marzittu”, così era detto in dialetto il nome della piante e della mia famiglia. Mio nonno morì due anni prima della riforma agraria e, dato che in famiglia nessuno dei maschi, oramai con altri mestieri, voleva tornare alla terra, subentrò un altro mezzadro. Quando i terreni passarono agli ex mezzadri, oramai contadini- padroni, fu tutto un abbattere alberi e siepi; gli alberi per mettere a reddito le quercie che, fino ad allora con le ghiande, erano servite per sfamare i suini (il legname de “le cerque de Marzittu” servirono a dare la dote a una ragazza cha andava sposa) e le siepi per guadagnare qualche ettaro in più per le coltivazioni. Adesso c’è un recupero, per lo più solamente estetico ma meglio di niente, di questi segni. I nuovi proprietari dei casali, diventati residenze eleganti, hanno ripreso a piantumare, per lo più piante e siepi non autoctone. Io ho allungato vicino casa una siepe di alloro che oramai, con i suoi quattro metri di altezza e dieci di lunghezza, è abitata da una bella colonia di merli!

    • maurizio gabrielli ha detto:

      Bel racconto,bei ricordi. Come vediamo è sempre il mutare dell’economia e dei rapporti di produzione che trasforma il mondo.

  6. stefano salomoni ha detto:

    Più che un problema legato alle ‘stoviglie metaforiche’, credo si tratti di una presa d’atto.
    E’ quasi una ossessione, la necessità di dover presidiare in modo antropico ogni centimetro quadrato del nostro territorio.
    Nulla è dimenticato, tutto morbosamente contestualizzato e, allo stesso tempo, molto lasciato al caso.
    Cosicché la visione-cartolina non è mai un racconto rassicurante.
    Si pianifica come se disponessimo di un territorio esteso 3 milioni di chilometri quadrati, mentre il nostro è un decimo di quella misura…quindi, cari colleghi, la metafora del bicchiere andrebbe regolata in funzione di un fragile shot(!).

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