Riceviamo da Pasquale Cerullo e volentieri vi giriamo questa illuminante e condivisa testimonianza sull’anima dei luoghi che, nel suo struggente anacronismo, ci conforta e ci fa ben sperare per il futuro …
“Caro professore,
Le vorrei scrivere di un argomento in margine, in margine a cosa non lo so, se può definirsi in margine il ‘popolo’. Sarebbe in margine all’architettura ma come Lei può ben capire, in architettura ed anche nella pianificazione urbanistica, il popolo non esiste, non entra in merito. Ma dov’è, il popolo, almeno a Roma? Non esiste più.
Il popolo romano non esiste più. Ma da parecchio, io andavo indietro col pensiero, Pasolini non descriveva un popolo, ma una condizione sociale, se proprio vogliamo usare la parola, era un popolo in disfacimento, senza più storia né tradizione né luoghi dove riconoscersi, un popolo sperduto nel deserto della periferia e perduto, sbattuto fuori dalla città ed oggi ancor di più. L’ultimo popolo di Roma definibile in maniera unitaria e con la P maiuscola risale a quello descritto da Trilussa, rappresentato da Petrolini. Poi la preponderanza linguistica e attivista del fascismo ne distorse la spontaneità, la guerra ne sparse i cocci e il dopoguerra lo ha sepolto in colate di cemento senza identità. Ed eccoci ora senza un popolo. Ma in architettura non contava prima, tanto meno ora.
Eppure è la storia della città, l’anima carnale. Ma come fa l’architettura a dialogare con l’anima del popolo? È una domanda che non ha più senso, perché il popolo non esiste più. C’è il fruitore, l’utente, il turista, non si costruisce per il popolo, da non confondersi col proletariato comunista, il popolo la voce narrante della storia della città.
Sia Trilussa che Petrolini avevano nei loro rispettivi appartamenti, una stanza dei ricordi, cose di Roma, cose di una città, la memoria non ha un luogo specifico dove essere riposta o rappresentata. È labile e effimera come quelle due stanze, non erano architetture ma luoghi, (un’architettura che diventa luogo è già memoria) molto fragili a conservarsi senza un provvido intervento. Così la stanza di Trilussa venne in minima parte recuperata, quella di Petrolini soffiata dal vento dei tempi. Poco tempo fa visitavo proprio il Museo di Roma in Trastevere. Una signora guardava incuriosita, nella saletta che conserva i cimeli di Trilussa, uno di quegli strani fiori metallici dono della Mondadori al suo scrittore, si chiedeva a che servisse, forse ne metteva in dubbio anche la reale esistenza. Per coincidenza avevo una bustina con dentro due piantine, comprate in un vivaio di viale Trastevere. Era proprio quella, la Dionea, pianta carnivora, inquietante con le sue foglie dentellate aperte come bocche fameliche. Volevo mostrargliela, poi mi sono trattenuto, in fondo alla signora non gliene importava niente.
Quel popolo era consapevole della propria identità, ne era fiero. Ora si riduce tutto ad una squadra di calcio. Ma quando Petrolini cantava Nannì rappresentava un paesaggio, quella canzone era la descrizione delle preziose perle incastonate nel paesaggio della gita ai Castelli, i Romani amavano i loro luoghi e li amavano vivendoli, con un rapporto carnale e passionale.
C’è qualcosa da amare? Per tutti quelli che dicono che certe architetture contemporanee di archistar a Roma sono belle ed eleganti e contemporanee, per stare a passo con il mondo, con i tempi ecc
Sarà così, ma un oggetto senz’anima non si può amare. E non era impossibile progettarlo, bastava amare quei luoghi… per riuscirci. Però, chissà, non essendoci più un popolo, non essendoci più un’anima in questa città, forse è quello che si merita.
A presto, con stima”
Grazie Pasquale …
Pienamente condivisibile, troppo spesso il nostro paesaggio è ignorato, aggredito, violentato dall’ignoranza, dall’avidità, dallo schifo dell’abusivismo, dal “menefreghismo” e anche da una certa “nuova” architettura usata come propaganda dai nostri politici, che non vogliono spendere un soldo per l’edilizia pubblica di qualità, ma sperperano denaro per “edifici cartoccio” senz’anima.
Io vivo a 2 Km da Tor Vergata, dove si sta costruendo una immensa “baraccopoli di lusso”, firmata dal celeberrimo Santiago Calatrazz…..va, edifici in pompa magna costosissimi quanto inutili, un vero e propio rigurgito di demenza imperialista.
Non distante, in zona Villaggio Breda, dove già esiste un quartiere popolare costruito nel ventennio (nelle vicinanze c’è anche la ben nota Tor bella monaca), si dovrebbero finalmente costruire delle nuove case popolari.
Gli abitanti delle zone limitrofe, che vivono in case abusive condonate, hanno raccolto le firme contro la costruzione di questo nuovo insediamento popolare, nel più totale menefreghismo per quelle persone che non hanno una casa.
In paesi più civili del nostro, tipo la Romania, le case abusive vengono tirate giù, parola di Rumeni muratori conosciuti nei cantieri italiani.
Che dire?
Un futuro non roseo per le generazioni dei precari, la difficoltà di avere consapevolezza dei propri mezzi, il consumismo come folle condizione cardine della società, la falsità e la truffa di una nuova economia in espansione (pensate alla bolla della new economy)… e quanto altro ancora?
Il nuovo che avanza, tutto cangiante… tutto vuoto… e senza una casa regolare…
Case abusive o “prestigiosamente” costruite dal palazzinaro di turno.
Basta fare un giro in periferia e di annunci ridicoli del tipo:
“Vendosi villette prestigiose”…
Vendonsi a prezzi modici, mutui anche a 40 anni…
…Vendonsi… Vendonsi…
Te danno pure il cartellone fatto col rendering squallido de autocad, così la “sola” che t’hanno rifilato, te l’appenni pure ar muro…
Non provare per credere…
Davvero bello. Vero. Perfino tragico, o meglio, triste (la tragedia ha passione, forza, crudeltà).
Penso alla nuova religione dell’IKEA, a noi adepti per esigenza o perché siamo già nel nuovo mondo di Huxley.
Penso ai tentacoli tecnologici che ci costringono a intasare il nostro cielo di sistemi comunicativi, siano senza fili, siano ecologici, ma sono sempre sbarre che ci rinchiudono. Dietro uno schermo, distanti da una finestra.
Penso a queste case tutte senza personalità, che non sanno più dell’avvocato, del vecchio amico, della signora appena idealizzata.
Penso ai ricordi di una Roma vissuta da bambino che già i miei vedevano diversa. Giocare a pallone nel colonnato del Pantheon, pattinare nella Galleria Colonna, bere un po’ d’acqua alla Barcaccia o sotto ar Fontanone, perchè lì l’acqua era più bbona.
Penso alla Trastevere di Romolo, della signora Marisa nata lì dentro. Alle tavolate felliniane dove tutti litigavano per pagare il conto ma poi pagava sempre mio padre.
Penso a Testaccio che faceva paura. Losco e lontano. Tetro e sincero.
Penso alle corse in bicicletta nella domenica con le piazze sgombre senza chiusura al traffico. Penso ai monumenti scuri, le facciate buie dei palazzi aristocratici senza politici dentro. Magari un po’ cadenti, ma che fascino.
Penso che amavo quella grande Città perchè era semplicemente più mia.
Io non pretendevo super trenini, auditori o nuovi stadi. Manco per idea. Mi bastava quello che avevo. Così tanto.
Cosa sia successo non lo so, mi rendo conto che siamo ormai eredi di qualcosa che non c’è. Eppure la bellezza resta. Resiste. Alle teche, agli ascensori, alle terrazze tipo lego, ai condizionatori, alle notti bianche, alle autoblu, alle fontane rosse.
Se passeggio sui pochi san pietrini veri, storti e panciuti, viscidi e argentati alla prima pioggia, mi è chiaro che Roma non è morta, nègli ultimi suoi figli veri, almeno non tutti..
Ce dobbiamo allora dà na mano a faje di de “no” stavolta. A quelli che se so’ fissati di farla trendy, europea, californiana, ikeica…
Roma sa che può contare su di noi.
E noi su di Lei.
Non sò se la perdita dell’anima di una città può essere relazionata alla sua dimensione e al ruolo che essa recita nella globalizzazione, forse è solo un’ associazione banale, infatti una città come Napoli, la seconda più grande d’Italia, forse potrebbe smentire questa tesi, o forse anch’essa ha perso il suo carattere popolare, genuino e legato ai suoi simboli. (i napoletani potrebbero meglio spiegarci ed essere meno superficiali di me).
Dopo aver letto “Lettere Luterane” di Pasolini, sono alle ultime pagine di un capolavoro della letteratura “Cristo si è fermato ad Eboli”,(come ho fatto a non leggerlo prima) e credo che questi due libri possono aiutarci a comprendere le crisi passate e presenti della società e di come le grandi trasformazioni omologanti imposte, possono produrre deportati culturali, di cui parla P.P.P, quelli della periferia romana del boom economico, “mostri”, quali prodotto di una trasformazione culturale subita, rapida ed imposta, dove al posto di una società contadina sana e cosciente di se, vi era una forma ogm della stessa, disgregata e priva di identità.
Levi, di contro, descrive in maniera altrettanto “scientifica” una società contadina durante il fascismo, di alcuni piccolissimi paesini dell’ entroterra lucano, estranea alla società ufficiale, fuori dalla storia, e dai grandi eventi, come sospesa in una dimensione atemporale e magica, dove lo spirito prevalente della popolazione è di eterna rassegnazione a quella vita di miseria, e di naturale estraneità a tutti gli eventi storici che hanno attraversato la loro terra fatta di argilla e di case-grotte prive di qualsiasi ambizione.
Ora quei paesini, che conosco bene perchè a due passi dalla mia città, pur esercitando un fascino eccezionale, (alcuni come Aliano corrispondono tutt’oggi alla descrizione del romanzo), non rappresentano secondo me il posto ideale dove viverci.
In conclusione credo che queste due società siano due facce della stessa medaglia, una partecipe della modernità e della quale subisce anche in maniera violenta le trasformazioni, l’atra ne è completamente fuori, isolata dal “mondo” per la serie chi c’è c’è chi non c’è non c’è.
La città costruita riflette questo fenomeno e forse i nostri centri storici, quando non violentati, globalizzati o abbandonati, possono rappresentare ancora un luogo dove ritrovare l’anima della città, come suggerisce R. Pane.
Le città con anima sono quelle nelle quali gli abitanti s’identificano, luoghi nei quali esperire e sviluppare il senso d’appartenenza. Per questo le scelte di trasformazione devono essere condivise, anche se tendenti alla totale perdita dell’identità storica. Se una comunità, come potrebbe essere in questo momento quella di Torino, accetta di non farsi più rappresentare dalla Mole Antonelliana, simbolo della città, riconosciuto in tutto il mondo, preferendo un grattacielo tecnologico, ultima generazione, contro il l profilo delle Alpi, non possiamo certo impedirlo. Possiamo solo pregare per la perdita dell’ anima, con la speranza che se ne possa creare un’altra. Ma siamo certi che i Torinesi vogliono questo, in un momento di globalizzazione e di rapida obsolescenza tecnologica che tende alla omologazione e alla disidentità? Coloro che hanno eletto il Sindaco sapevano che avrebbe cambiato i connotati alla città?
Roma gioca un ruolo di potere ben diverso da Napoli. Infatti la mia lettera a GM riguarda solo il popolo di Roma.
Su Napoli, nel cui interno (sia il centro antico che lo storico) presenta ben vivi i quartieri popolari (con i pro e i contro), ed anche una sana borghesia di tradizione (anche quella è popolo naturalmente), ci sarebbe da spiegarne le ragioni, ma credo che siano ben note.
Sulla borghesia a Roma ci sono dei distinguo, è solo un mio parere molto semplificativo, due borghesie che mal si sopportano o che comunque non si condividono; mentre dai tradizionali quartieri popolari del Centro, è ben chiaro, il popolo basso è stato cacciato via (scusate il termine) a calci in culo (ed anche il ‘morigerato’ proprietario Vaticano non si è fatto mancare di ‘elargirne’ qualcuno, a mo’ di assoluzione ‘definitiva’).
Credo che quello che dice Isabella Guarini sia molto vero. Io sto vivendo una situazione di questo tipo a Padova, dove sto completando (dita incrociate) la mia tesi di laurea sul quartiere Arcella, o meglio su una riqualificazione urbanistica del quartiere (40.000 abitanti, il più antico e popoloso della città dopo il centro storico) in seguito alle trasformazioni della viabilità che stanno avvenendo. Il progetto di riqualificazione ha come cardine la costruzione di un luogo identitario, una piazza, in quello che adesso è il cuore pulsante del quartiere, cuore pulsante che però manca di un’immagine riconoscibile e forte, anzi, si potrebbe dire che l’attuale aspetto di questo slargo sia la summa di un cinquantennio di angherie e soprusi urbanistici in cui si è fatto scempio di un quartiere e del suo piano regolatore, redatto nel 1954 nientemeno che da Luigi Piccinato, piano che ora si tenta tardivamente, faticosamente e costosamente di ripristinare. Il caso della piazza è interessante perché per anni è rimasta vincolata a un progetto, redatto da Vittorio Gregotti nel 1987, che, parzialmente realizzato (purtroppo) e pur dando una risposta, condivisibile o meno, al problema con un’idea precisa di città, ora mostra tutta la sua obsolescenza, a fronte della storia urbanistica del quartiere di quest’ultimo ventennio. Se non che, che succede? Succede che l’amministrazione decide di punto in bianco, di completare il progetto, ossia di costruire quattro torri quattro di quarantacinque piani l’una, quattro bei “morfemi” (chi segue assiduamente questo blog dai suoi esordi, sa a cosa alludo) in puro Gregotti Style piastrellati di un lussureggiante clinker grigio smog, che, oltre a instaurare un principio insediativo stile Manhattan in una zona la qui frammentazione edilizia ricorda molto di più i bassifondi tokyesi, ha il grande pregio di porsi a landmark territoriale a scapito dello splendido campanile del santuario antoniano presente nel territorio, magnifico esempio di quel liberty-déco degli anni ’20 che a Padova ha avuto esponenti insigni, da Pogliaghi, a Gallimberti, a Eugenio Maestri, fino a Daniele Donghi (che pure architetto non era).
E qui scoppia il caso. Una magnifica occasione di mettere in pratica le possibilità fornite dalla nuova legge urbanistica veneta che istituisce i pat e manda in pensione i vetusti prg, diventa un’occasione per uno scontro politico e una strumentalizzazione senza quartiere, in cui, invece che cercare di costruire un reale e fruttuoso processo di partecipazione per un luogo che diventerà l’icona di un brano importantissimo della città di Padova, con l’evidente risultato di raccogliere istanze competenti e condivisibili volte alla stesura di un bando per un concorso di idee, l’unico risultato è istituire un referendum in cui si chiede ai cittadini se costruire l’intero progetto, se costruirlo in parte o se non costruirlo affatto. Cosa che già in sé contiene in nuce un principio aberrante, ossia che la qualità di un progetto buono o cattivo si misuri a metri cubi, al di là delle logiche che lo hanno prodotto e delle conseguenze, negative o no, che può scatenare.
Morale della favola: percentuale di affluenza appena sopra il quorum (25%), percentuali bulgare contro il completamento del progetto, e oggi, a un anno di distanza, un ricorso al Tar del privato che doveva realizzare l’opera che viene accolto e impugna il risultato del referendum. Così oggi ci ritroviamo con un procedimento penale in corso, un parcheggio davanti a una chiesa che è una terra di nessuno e, soprattutto, un punto interrogativo grande come una casa sul futuro del quartiere.
Chiedo scusa della lunghezza…tutto questo per dire comunque che, al di là di manicheismi discutibili e come sempre semplicistici tra nostalgici e cementificatori new-global, è inevitabile che le città subiscano delle evoluzioni che a volte possono comportare dei “sacrifici”, e che la riconoscibilità e l’identificazione possano subire dei processi di trasformazione anche non lineari. Ciò che è auspicabile e che è anzi la nuova meta da cercare a tutti i costi di raggiungere, è piuttosto far sì che la nuova coscienza che si crea sia una coscienza sufficientemente competente e consapevole delle problematiche in gioco, proprio come sostiene la Guarini. E se posso aggiungere qualcosa di mio, credo che la cosa più grave, al di là dei palazzinari o dei cementificatori (quelli ci saranno sempre) e che mi pare che più di tutto manchi proprio una volontà di costruire un processo di questo tipo (attraverso per esempio una partecipazione seria e ben strutturata, come certi esempi cui ho avuto la fortuna di far parte), o peggio, ci sia una precisa volontà di ottener l’esatto contrario, in maniera da poter operare indisturbati nell’anarchi più completa.
L’Architettura è morta, si diceva …
La Città è morta.
La Città è senz’Anima.
Vi è un cortocircuito tra la Città concreta e la Sua memoria
C’è chi vuole che sia così.
Si spendono tanti di quei soldi pubblici per costruite – non costruire, per andare dietro a questa o quella moda, per non dire niente, in onore della modernità
… ma quale?
Salvatore Risoli
Ho dimenticato di dire che se volete partecipare al sondaggio sul grattacielo di Torino, potete andare sul sito di Repubblica.it, edizione locale di Torino. Io ho votato per il no.
Qualche riflessione sulla bella lettera di Cerullo; mi sembra di poterla sintetizzare con questo assunto: l’anima del popolo coincide con l’anima dialettale. Nulla di più vero, tanto più se pensiamo alla definizione che proprio Pasolini diede del dialetto: lingua di poesia, non di realtà.
In realtà l’ultimo sommo poeta dialettale che abbia rappresentato il popolo è il Belli. Prima di lui, e lui vivente, Roma viveva una storia ben diversa da quella delle altre città italiane. Era una sorta di nazione nella nazione, solo per il fatto che c’è il Vaticano. La sua vita non poteva svolgersi come altrove. Ecco allora che il poeta, rigorosamente in dialetto, esprime a nome del popolo ciò che il popolo non può non solo capire, ma neppure è in grado di esternare.
Fra Belli e Trilussa c’è lo spazio temporale che comprende l’Unità d’Italia e due guerre mondiali. Nel frattempo il popolo si è evoluto, e come nella realtà sociale si è fatta strada la borghesia, così nell’espressione dialettale si distinguono due “rami”: quello popolare e quello còlto, per l’appunto borghese.
Attenzione, perché Trilussa, secondo lo stesso Pasolini, “non ha mai scritto del popolo, né per il popolo. E’ la massa dei suoi lettori borghesi che ne ha determinato il senso e la fama” (P.P. Pasolini, Introduzione a “Poesia dialettale del Novecento”, a cura di P.P.P. e M. Dell’Arco, Guanda 1952).
Sono pochi i poeti dialettali che hanno parlato al popolo, nel Novecento romano. Dapprima perché il fascismo li costrinse al silenzio, poi perché la rivalutazione del dialetto ha comportato l’innalzamento del livello della poesia stessa. Ecco un’occasione di riflessione: la stessa cosa non si è verificata in architettura…
Ho in mente un meraviglioso filmato di Pasolini, passato da una rete Rai in orario ovviamente proibitivo, intitolato “La forma della città” (1974). Accompagnato dalla cinepresa fa una ricognizione di due luoghi a lui cari, Orte e Sabaudia, che hanno origini diametralmente opposte, e ne denuncia gli oltraggi subìti (edilizia selvaggia, grattacieli adiacenti alle mura antiche), in nome della bellezza dell’architettura.
Non era la prima né l’ultima volta che Pasolini denunciava la bruttezza imperante di certa architettura. Mi viene da pensare a come avrebbe reagito se avesse visto l’IKEA…
(Un ricordo, proprio oggi, nell’anniversario della sua uccisione).
@ Pasquale.
Dato che condivido molto il tuo pensiero (anche e soprattutto sui calci in culo) sarei curioso di sapere di più sulla teoria delle 2 borghesie.
se vuoi e se hai tempo (anche privatamente marco.fiocchi@gmail.com)
grazie mille
non ho capito bene se tutti avete avversione per gli edifici ikea o per quello che l’ikea rappresenta nel mondo contemporaneo dell’abitare.Se si tratta del secondo caso, vorrei intervenire.
ho una certa conoscenza del problema perchè ho lavorato molti anni agli interni delle case d’abitazione in diverse località italiane, rendendomi conto da vicino che ogni luogo, ogni civiltà, ogni tempo , ha delle caratteristiche ben identificabili; peraltro ho constatato che le case di base ,intendo della base contadina e artigiana hanno mantenuto per quasi mille anni distribuzione e arredi pressochè uguali nel tempo e nelle varie aree . Gli stessi arredi erano presenti nelle case a schiera di via dei coronari o a campo dei fiori, abitate dallo stesso tipo di fruitori, quando negli anni cinquanta venni a Roma e subito cercai di rendermi conto del “cuore” di quei tipi adilizi che vedevamo sempre dall’esterno.
Poi ho insegnato per molti anni architettura degli interni e arredamento alla facoltà di Valle Giulia. Il primo tema su cui ragionavamo era quello dell’abitare e il primo esercizio che i miei alunni facevano era un accurato rilievo di tutti i locali
della propria abitazione con grande attenzione ai materiali di finitura (pavimentazioni, pareti e altro ) e agli arredi presenti ,molti dei quali fotografati e rilevati.( devo specificare che non abbiamo preso in considerazione quella che definiamo come edilizia speciale, cioè i palazzi che sono sì, abitazione ,ma con in più delle qualità di rappresentaza, specificamente,che ne rendono sia gli interni che tutti gli arredi assolutamente particolari, e da studiare in altra sede.)
Dai rilievi messi a confronto è emerso un dato sconcertante:l’86% delle case esaminate erano arredate con mobili in “stile” cioè quei mobili costruiti nel nord
Italia (grande centro era Cantù) dagli anni dopo la guerra, che tentavano con le loro apparenze di dare una certa nobiltà a chi non avendone mai avuta, si incantava di fronte alle cornici finto settecento.
Se quanto dico vi sembra esagerato, io ho al mio studio molti di questi rilievi.
Nel frattempo, per la ricca borghesia, erano arrivati dalla Germania e dall’America i primi importanti mobili di design riservati quasi sempre a chi aveva grosse disponiblità economiche.
E finalmente torniamo all’ikea; la grande civiltà del nord già da molti anni era entrata in una visione attuale del modo di abitare: mobili semplici, eleganti ,di buon design, grazie a una estesa ricerca, ed economicamente possibili a un pubblico allargato
Il processo è naturalmente ancora in essere, ma mi sembra che nella libertà di scelta, è in atto una ricerca di verità, che non esclude il personale passato di ognuno, ma lo colloca in un autentico adeguamento al presente.
Le notazioni di Isabella Guarini le trovo molto pertinenti.
Però vorrei chiedere se sapesse al momento del voto a Napoli e in tutte le città campane, se gli elettori sapevano bene quale era la filosofia di Bassolino, e di Jervolino per la città di Napoli, visto che stanno letteralmente “imponendo” senza alcun diritto di replica, ogni decisione e trasformazione urbana alle comunità inermi ed incazzate nere.
Sì perchè questo problema non riguarda solo Napoli, ma anche altre città medio piccole della Campania.
Almeno Torino è alla ribalta su un giornale nazionale, ma di tutte le altre piccole città italiane dove questo indirizzo filosofico politico sta letteralmente uccidendo i paesaggi urbani e non, se ne sa poco o nulla.
Ragioni della modernità e del progresso oppure ignoranza allo stato puro e abilità arrogante del sorpruso politico?
Non a caso il diritto di replica e la partecipazione collettiva locale è direttamente proporzionale a quello esposto dalla politica governativa nazionale di una nazione che si vanta di aver fatto la resistenza, ove il contrasto con tutto ciò che era contro il popolo fu forte e deciso (così stanno insegnando a scuola!).
Tutta questa decisione e fermezza nel contrastare questa politica scellerata delle trasformazioni urbane e paesaggistiche, io non la vedo da nessuna parte in Italia, a partire da ROMA !!!
Ogni ente fa quello che vuole, nessuno osa impedire!
Il referendum è atto giusto e nobile, ma dietro ogni decisione di “fare” qualcosa, c’ è sempre un motivo (!), al quale 1000 referendum potranno poco o nulla.
In bocca al Lupo
Arem