Critica della “sfortuna” critica … Pasquale Cerullo sui romani “dimenticati” …

 Abbiamo ricevuto e volentieri sottoponiamo alla vostra attenzione le osservazioni di Pasquale Cerullo su uno dei temi “caldi” della storiografia contemporanea …

“Il caso di Luccichenti è emblematico. Fa parte della normale genesi della storia. Questi architetti cancellati dalla critica del tempo, per motivi ben definiti e plausibili, nonostante la loro produzione sia stata notevole e comunque legata anche ad un linguaggio razionale, hanno pagato con la messa al bando dai testi e le riviste nazionali che seguivano le vicende architettoniche del paese, che coglievano gli echi moderni dagli anni dieci venti sino alle soglie della guerra, e li riprendevano in chiave di cronaca dal dopoguerra sino agli anni sessanta, per utilizzare quei nomi in forma di antitesi.
Oltre alle posizioni utilitaristiche per le quali furono additati, c’era in gioco anche una sorta di concorrenza professionale. Oggi che quelle cronache e quelle storie sono diventate documenti di analisi, anche quegli architetti al bando sono oggetto di analisi perché i loro progetti realizzati, sono un documento storicizzato nella città.
Che ci sia stata una differenza tra i maestri italiani dell’architettura moderna e loro, non è da dubitare. Non perché non fossero capaci ma perché non  sentivano un’urgenza di rinnovamento e si limitarono ad essere ‘solo’ dei buoni, anzi degli ottimi professionisti, tecnici al servizio dei costruttori e realizzatori dei desideri dei committenti. Dopo di loro si è fatto molto peggio, ma con quella idea delle sorti progressive nessuno poteva immaginarlo. Oggi lo sappiamo e riusciamo a vedere con quanto mestiere ed equilibrio, anche al di là di connotati estetici, utilizzavano materiali e organizzavano spazi e geometrie funzionali, ma anche espressioni tipiche di un’epoca.
Cosa manca ora? Non certo la conoscenza dei loro lavori, poiché gli studi fatti sono numerosi e continui ed hanno già prodotto monografie esaustive di questi ‘nuovi’ maestri.
Manca un’analisi della loro ’sfortuna’critica e della resa nel tempo degli edifici. Questi edifici oggi hanno un alto valore, non tanto per la firma che portano ma di rendita.
Roma è l’esempio per eccellenza., centro politico culturale ha espresso una quantità innumerevole di linguaggi e figure nel panorama dell’architettura del 900, rimasti sconosciuti, una nemesi storica non conclusa nelle altre regioni. Ciò significa  che questi architetti, bollati come di regime o strumenti della  speculazione edilizia, sventratori della memoria e via di seguito, sono ad oggi solo dei nomi le cui opere, a parte quelle di nomi ‘eccellenti’ come Piacentini, sfuggono a coloro che non si sono formati didatticamente, con poco interesse, a Roma e dintorni.

Ora che mi sto avvicinando di più a questa città, per passione, sto scoprendo e capendo cose che mi consentono di ricollegare  punti rimasti in sospeso, sciogliere nodi e contraddizioni. Io che non sono di Roma. A Salerno, anni addietro, Gigliotti tenne una mostra sui lavori della sua lunga carriera di ingegnere architetto. Ricordo che arrivato tardi, rimasi solo nella sala delle colonne del tempio di Pomona, solo con Gigliotti. Restammo a parlare per più di un’ora, mi raccontò fatti e curiosità, della sua collaborazione con Zevi e Portoghesi. Non ricordo se Zevi fosse già scomparso, ho rimosso; sulla moschea romana, trovandosi a parlare con lui, pregò di dirgli se provasse acredine  anche nei suoi confronti. Zevi gli rispose che non era in causa. Gigliotti insisteva, voleva sapere se aveva commesso qualche sbaglio, se c’era qualcosa da riparare, lo avrebbe fatto. Zevi, che aveva un grande rispetto verso il lavoro di Gigliotti gli rispose che doveva continuare come stava facendo, di non preoccuparsi, perché lui stava facendo bene. Gigliotti  si rincuorò perché capì che era una guerra personale tra lui e Portoghesi, o meglio tra il suo essere ebreo e l’inimicizia politica di Israele con una parte del mondo arabo.
Diatribe ‘personali’ in senso lato, ferite insanabili e ripercussioni storicistiche hanno portato Bruno Zevi ad oscurare eventi della cronaca e della storia, ‘obbligando’ negli anni della sua docenza, gli allievi a non sapere l’altro lato della stessa storia. Ma io sono del parere che fu una scelta ‘obbligata’, appunto. Non era solo una conoscenza storica, ma una linea architettonica da seguire, non bisognava confondere, tra esempio e conoscenza. Doveva essere una cosa sola: critica operativa.
Anche se Zevi raggiunse l’estremismo, nel fatto che quegli architetti che espressero un linguaggio moderno, ma collusi con il fascismo o non apertamente schierati e ‘scappati dalla battaglia’, o ancor peggio che ne facevano una mera questione stilistica, non accesa dal fuoco della ‘libertà’, non ebbero scampo. Ne ebbi una conferma quando gli chiesi se uno come Baldessari, un ‘isolato’ volontario del suo tempo, potesse essere rivalutato. Era De Seta, che ne “La cultura architettonica…”, dava rilievo alla figura di quest’architetto, lo aveva conosciuto di persona. “Genialoide, di più non c’è da dire”, fu il giudizio lapidario di Zevi.  Quindi non bastava l’opera architettonica per giudicare in positivo, ma la questione ‘morale’, al di sopra dei linguaggi. Perché poi, analizzando le opere di certi architetti ‘moderni’, si poteva notare, in alcuni casi, una leziosità ‘borghese’ senza tempèrie sociale, componente non trascurabile del M.M., che denunciava la ‘vera’ natura del ‘soggetto’ in esame. Perché “il muro c’è”, una destra e una sinistra, un mondo visto secondo due prospettive diverse. E questo lo credo anch’io.
Come le ho scritto è solo da poco che sto venendo a conoscenza di tutti questi ‘minori’ romani. Dire che Brasini sia un minore è relativo solo al suo apporto, pressoché zero, all’architettura moderna in Italia. Eppure quando vidi per la prima volta il ‘castellaccio’ , rimasi stupito di come nella prima metà del  900 qualcuno dei ‘dimenticati’ potesse esprimersi così liberamente, un pazzo come Lequeu, finto rivoluzionario nella Francia fine XVIII. Anch’io avevo dimenticato. Ma un paio di mese fa, sulla linea 88, insieme a mio fratello, andavamo verso via della Brava. In un curvone di via di Bravetta, spunta questo complesso ‘monumentale’ che sembra tanto un convento, e che risulta essere, come si evince dalle insegne, un contenitore scolastico. Il giorno dopo, ricordo ancora quello ‘strano’ edificio, mi aveva provocato la stessa suggestione di una dimora anch’essa romana, che avevo visto in delle foto di una rivista, e che mi si erano fissate nella memoria, per l’anacronistica visione del progettista; ritrovo la rivista, del 1999: villa Augusta di Armando Brasini, solo tre foto particolari: sala delle colonne romane, ninfeo interno e un piano ravvicinato del paramento murario. Quello scherzo ‘storico’ sapeva tanto di massonerie, di logge segrete, di esoterici messaggi, era questo che mi aveva trasmesso. Mi rammentava uno sceneggiato degli anni 70, “Il segno del comando”, che rividi in età più consapevole, ambientato in una Roma notturna, senza tempo, misteriosa, una storia di sette segrete, di magia nera, gli interni somigliavano tanto a quelli di questa villa, ed ora non mi meraviglierei se fossero stati girati proprio lì. Così mi vado a cercare tutti gli edifici di Brasini, quello che per me era solo l’architetto fascista di Mussolini, pazzoide scriteriato, cultore del diradamento e degli sventramenti, con la facoltà di dimenticarne il nome ogni volta che lo incontravo: lo stesso progettista della chiesa e convento del Buon Pastore, il monumentale edificio tra via di Bravetta e via Silvestri, a dispetto dell’errore toponomastico nell’Atlante di Strappa e Mercurio (via Fiastra); e così villa Augusta non è altro che il famigerato castellaccio maledetto, palazzo/villa/castello Brasini, ingresso in via Flaminia n° 489, studio Brasini n° 491. Il puzzle si ricompone, tanto  più che Brasini fu anche massone e scenografo cinematografico. Da tutto ciò si deduce almeno una cosa, che fu una persona coerente, in tutte le sue manifestazioni.
Ciucci definì ‘ambigua’ la rivalutazione a cura di Bilancioni in “Eupalino”del 1984.  Ed ora? mi risulta che ci sia stata una mostra verso il 2003, dallo stridente titolo: “Il Movimento Moderno e Roma: Urbanistica, Architettura e costume da Brasini a Nervi: 1928 – 1960.
In verità c’è un motivo di questi salti atemporali di alcuni architetti: quale storia studiavano durante gli anni della preparazione? se la loro visione non era accompagnata da una prospettiva a larga scala geografica, li porta-va ad utilizzare nella progettazione gli stessi elementi imparati,  per il piacere estetico, il gusto, la passione,  il progetto guidato da una passione per certe forme, ornamenti, a discapito della essenzialità  moderna. Brasini, da questo punto di vista, fu un eccelso ‘ignorante’. Troppo gonfio di barocchetto per non insufflarlo nei suoi lavori, questo era il suo ‘sogno dell’architetto’. Non è una colpa. In fondo anche Portoghesi, a forza di studiare il barocco lo ha espresso nel suo fare lavorativo, Pagliara con la Secessione viennese e Wagner. Tutto sta ad interpretare i segni della modernità nel passato. Portoghesi ci è riuscito, soprattutto all’inizio. Brasini no, perché non era nei suoi interessi. Sebbene il Castellaccio segua apparentemente una certa libertà espressiva, risulta l’imbroglio di un citazionista e di un collezionista, ciò che conta è l’effetto che produce, ed in questo ci riuscì perfettamente, come per la scenografia inquietante di un film del mistero.

Nel 1953 fu edito il libro di F. Sapori: Architettura in Roma 1901 – 1950, Belardetti editore. L’autore è un buon metro di giudizio per valutare cosa nel dopoguerra, a Roma, veniva recuperato, degno di essere menzionato, al di là della ‘Storia dell’Architettura moderna’.  Ritornando a De Seta, con “Architetti italiani del 900”, ora rinnovato, naturalmente segue la lezione zeviana ed espurga i ‘dimenticati’.
Lei ha prodotto una notevole quantità di scritti, anche in collaborazione, ha sempre trattato l’argomento. Ma perché non propone e, magari, realizza ad una sola mano, una pubblicazione esclusivamente dedicata? Ovvero la sfortuna critica degli architetti romani ‘purgati’, dal 1901 al 1960. Non tanto l’elenco delle loro opere, ma l’analisi dell’oblio, per ciascuno un capitolo. La valutazioni dei progetti, oltre il loro tempo e la ricerca delle qualità; oltre il giudizio sulla modernità. La resa ‘sensibile’ presso i committenti. Guardando certi arredi (stile Impero?) di Andrea Busiri Vici, che ancora proponeva negli anni Cinquanta, c’era da mettersi le mani tra i capelli, però, piacevano ed erano richiesti da uno strato sociale, la nobiltà è sempre stata tarda, perché conserva tutte le memorie degli avi, anche gli arredi, per esserne all’altezza bisognava copiarli. Era una realtà, un gusto ri-cercato, un grembo materno rassicurante oppure un riscatto sociale.
Mi scuso, subdolamente ora, per essermi  dilungato, confido nella sua pazienza
.”

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8 risposte a Critica della “sfortuna” critica … Pasquale Cerullo sui romani “dimenticati” …

  1. Cristiano Cossu ha detto:

    Bellissimo questo pezzo!
    thanks

  2. Maurizio Conte ha detto:

    Sono d’accordo , si tratta di un bel “pezzo”, che mi ha fatto riandare ai miei anni di studente (dal 1971) a Palazzo Gravina, a Napoli, ed a quelli successivi nello studio adiacente alla stessa facoltà. Entrambi, facoltà e studio sono a ridosso del grande intervento che fu realizzato negli anni ’30 per creare il centro direzionale della città, e che ha nel Palazzo delle Poste e Telegrafi l’edificio certo più rimarchevole. Ebbene, pur essendo politicamente di sinistra, poi dal ’76 segretario del PCI in facoltà, ho sempre pensato che l’edificio delle Poste di Vaccaro fosse straordinario per tipologia, forza espressiva, monumentalità capace di fondere il nuovo linguaggio razionale con elementi addirittura espressionisti, passando per l’arcaicità dell’uso delle masse murarie, richiamando la memoria della vicina città geco-romana. Così come bellissimo l’edificio del Ministero delle Finanze di Canino, presso il quale tanti anni fa Mario Botta rimase assorto, e potrei andare avanti.
    Erano anni in cui non si poteva dire che fossero belli e importanti perchè etichettati come fascisti. Solo nel 1988, grazie ad un articolo di Benedetto Gravagnuolo su Domus, l’edificio delle Poste ha conosciuto il suo sdoganamento ufficiale! E che dire del libro di Cesare De Seta del 1971 “Architettura italiana tra le due guerre”, nel quale l’unica citazione napoletana consisteva in un rigo e mezzo su Luigi Cosenza, ignorando totalmente tutti gli altri. Eppure era stata realizzata la Mostra delle Terre d’Oltremare, cui avevano partecipato Piccinato, Canino, La Padula, Cocchia, De Luca, Filo Speziale e tanti altri.
    A tal punto che dieci anni dopo Canella, che all’epoca dirigeva Hinterland, a fronte del vuoto presente nella mostra milanese sulla cultura durante il ventennio (la sezione architettura se ricordo bene era curata proprio da De Seta), chiese a Carlo Cocchia, che negli anni ’70 era stato a Milano, di mandargli dei suoi testi da pubblicare sulla rivista che documentava quella mostra.
    Cocchia gliene inviò due, uno dei quali bellissimo redatto per una pubblicazione che accompagnava una mostra napoletana sugli ultimi cento anni di trasformazioni urbane, da me curati con altri; raccontava con gli occhi di un protagonista che era cresciuto abitando in parti diverse della città e che l’aveva vista trasformarsi sino a diventarne uno degli artefici nella Mostra d’Oltremare, cui aveva dato un importante contributo. Per fortuna De Seta ha poi fatto ammenda circa 15 anni dopo con una bellissima mostra sull’architettura del ventennio a Napoli.
    Ma ormai era diventato tutto più facile, non più all’insegna dell’eresia della vera ricerca, e soprattutto sull’onda del recupero sempre più spinto del passato a fronte delle miserie sempre più infami del contemporaneo.

  3. isabella guarini ha detto:

    Non bisogna dimenticare che l’edificio delle Poste a Napoli di Giuseppe Vaccaro è frutto di un pubblico concorso. Modalità difficile ad ttuarsi a Napoli, se si considerano le vicende concorsuali recenti. Quando ero studente, dal ’64 al ’71, nella Facoltà d’Architettura di Napoli il Palazzo delle Poste era oggetto di aspre critiche sia perché era di epoca fascista, sia perché fu edificato in sostituzione di edifici storici, inglobando un chiostro in adiacenza, che oggi non ha vita facile e sopravvive nell’abbandono. Allora, per opera di Roberto Pane, lo scontro tra antico e moderno era radicale, anche con l’appoggio del PC I che, in Palazzo Gravina, aveva il quartiere generale di coloro che, successivamente, governarono, e governano, la Facoltà e l’Ordine professionale. Tutti volevano mettere la coperta di Linus sul passato prossimo. E, durante il ’68 vidi il professore Canino, con il suo occhialino, scendere per le scale tra una folla di studenti seduti a terra che lo contestava. Uscì e non vi fece più ritorno.

  4. federico calabrese ha detto:

    dopo le poste di Franzi-Vaccaro, a Napoli…………il deserto.
    peccato per quella inutile scritta che l’amministrazione comunale decise di appiccicare alla facciata che da sulla scalinata che collega via Monteoliveto con piazza Matteotti.Davvero di cattivo gusto.

  5. Maurizio Conte ha detto:

    Federico hai ragione, sia nell’aver ricordato il milanese Gino Franzi che con Vaccaro firmò il progetto delle Poste (ho rischiato io stesso di dimenticare qualcuno), sia su quella scritta che risponde ad una mera operazione filologica, giacché fu montata al completamento dell’opera, e quindi ripresa nel restauro. Ma non perchè sia di cattivo gusto, piuttosto perché la ritengo un’operazione sbagliata; infatti è stata aggiunta una balaustra alla sommità della gradonata che non esisteva, e questo per motivi di sicurezza. Dunque si afferma in questo modo da un lato la necessità di adeguarsi a leggi recenti modificando il manufatto originario, e dall’altro se ne afferma l’immodificabilità della condizione originaria come valore da recuperare.
    Ad Isabella vorrei solo dire che Pane ha avuto alcuni scheletri importanti nell’armadio, fermo restando che la discussione tra il mantenimento della struttura urbana preesistente e la trasformazione urbana che demolisce prescinde dalla qualità di quel che si realizza. Nel caso in questione è innegabile che si siano persi alcuni edifici rilevanti ed una parte della città antica, ma si può affermare con convinzione che è stato realizzato uno degli edifici pubblici da annnoverare tra i più belli costruiti negli anni ’30 in Europa, la cui tipologia è stata forgiata da un lato sulla nuova piazza e dall’altro dall’incastro con l’antico chiostro. Una considerazione, amara purtroppo, la vorrei aggiungere: oggi, raramente operazioni del genere potrebbero avere questo esito, a fronte della pochezza dei riferimenti culturali, del narcisismo dei linguaggi, dei deliri tecnicisti, dell’ignoranza a leggere la città.
    Tutto questo è molto presente nelle opere delle stazioni del Metrò la cui mostra gira l’Italia per pubblicizzare l’iperattivismo di Amministrazioni che, dietro il paravento della alterità del soggetto committente (FS), non ha attivato uno straccio di concorso che liberasse energie e intelligenze valutabili non per l’età, ma per la qualità delle proposte.

  6. isabella guarini ha detto:

    Restaurare l’architettura moderna è molto difficile, perché ci sentiamo legittimati ad essere sempre più moderni, senza considerare la trasmissione dei valori estetici originari. Mi spiego. Gli infissi della facciata principale, all’ultimo piano dell’edificio delle Poste di Napoli, sono stati sostituiti con infissi di alluminio, posti a filo esterno del vano-finestra . La perdita di chiaroscuro è notevole, ma non tutti lo ricordano perché si è acquisita l’idea della superficie uniforme. Per quanto riguarda le stazioni della Metropolitana di Napoli ho rilevato, in più occasioni, l’adesione alla politica dello star system , adottata acriticamente da molte altre amministrazioni. Una firma dello star system è come la password per accedere ai finanziamenti europei, mentre il risultato e la gestione succcessiva delle opere sono da verificare nel tempo e ricadranno su di noi. Non sono d’accordo sulla eccessiva varietà di soluzioni, come un campionario da esposizione. Il motivo sta nel fatto che la frammentarietà estetica delle singole stazioni accresce il senso di dispersione, già prodotto dalla rete dei percorsi sotterranei, privi di connotazione paesaggistica e architettonica. Vuoi mettere il percorso da Piazza Vittoria a Mergellina con il vecchio tram o pullman, lungo la Riviera di Chiaia e la Via Caracciolo, da cui beneficiare della vista di Vesevius, della Penisola Sorrentina, dell’isola di Capri fino a Posillipo, e lo stesso percorso in sotterranea. Nonostante le stazioni delle star, io me ne andrò sempre in superficie e mi godrò il panorama che ancora resiste in bellezza.

  7. federico calabrese ha detto:

    Dopo le oscene e pornografiche stazioni della Linea 1 di Mendini-Aulenti-Orlacchio.
    Le famose e pluripremiate stazioni dell’arte, la citta’ dei trasporti sforna ben altre 18 o diciannove stazioni nuove, che portano la firma di architetti famosi e molto meno, bravi e molto meno, designer-parrucchieri-artisti…..
    Chiaramente senza uno straccio di gara, di concorso o cose simili.Incarichi diretti, diretti dalla longa manu del preside Gravagnuolo….e quindi:
    Eisenman, Kollhoff, Perrault, Botta, Rogers, Tusquet, Podrecca, Fuksas, Siza e Souto de Moura, oltre che dei napoletani Loris Rossi, Pagliara e Siola e del partenopeo-parigino Silvio d’Ascia. di Michelangelo Russo e Diego Lama, Pitzalis,
    Futur System, KApoor.
    Non vedo l’ora di vedere il nuovo salotto urbano di Via Toledo con piramidi esagonali ispirate ai capirotes della Settimana Santa, pensato da Oscar Tusquets.
    Buona passeggiata…..

  8. isabella guarini ha detto:

    Il minestrone metropolitano di Napoli non tradisce la storia della città, fatta di tante culture non compiute, derivanti dalle varie dominazioni. Oggi è il tempo della dominazione globale, e tutto va bene. Domani si piangerà per gli errori commessi e si chiederanno fondi per il Risanamento. Corsi e ricorsi, del resto Gian Battista Vico era napoletano.

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