Contro il logorio dell’architettura moderna …
Il mio rapporto con il lavoro di Giorgio Grassi risale agli anni lontani della scuola, nella seconda metà dei Sessanta, quando a Roma imperavano le personalità di Bruno Zevi e di Ludovico Quaroni i quali vivevano entrambi una speciale patologia nei confronti delle grandi scuole di architettura del Nord e delle idee che da quelle provenivano.
Nei primi Sessanta esisteva, in area romana, un autentico terrore nei confronti di quelle esperienze e i nomi di Rossi e di Grassi erano in prima fila tra i personaggi maledetti.
Si può quindi ben comprendere come un tale ostracismo si ribaltasse poi facilmente in una specie di adorazione da parte degli studenti che proprio in quelle personalità cercavano l’antidoto ai metodi confusi di una scuola alla ricerca incerta di una sua nuova identità. Ricordo con chiarezza l’affanno e il nervosismo col quale i pur illustri docenti rispondevano alle domande più ovvie, ma anche più imbarazzanti con uno Zevi tonante che la buttava in politica e un Quaroni altrimenti panico che intravedeva in quelle tendenze quasi un ritorno del passato, di un passato che si voleva acerbamente rimosso e non ancora del tutto metabolizzato. Ad aggravare il tutto lo stato di tensione che allora si percepiva nei confronti di un personaggio, che avremmo poi scoperto capitale, come Saverio Muratori che di quelle esperienze, se non proprio ispiratore, era comunque da considerarsi pericoloso riferimento e basista. Quindi Rossi Grassi e Muratori erano, tout court “fascisti” e almeno i primi due in pericoloso odore di sulfureo “stalinismo”. Quanto basta a delinearne un certo alone di insondabile fascino e farne perciò stesso degli eroi agli occhi di quanti non si rassegnavano alle fumisterie quotidiane, alle nebbie e alle gore, del pantano romano.
Devo dire inoltre che dei tre personaggi citati quella che allora mi intrigava di più, vuoi per l’esiguità delle notizie al riguardo, vuoi per certi tratti già individuabili e convincenti, era proprio la figura di Giorgio Grassi alla quale peraltro mi legavano certi studi appena avviati sotto la guida di Paolo Marconi sulla trattatistica e sulla manualistica sei settecentesca di scuola francese. Ho quindi sempre stampata nella memoria la copertina con le tipologie di Le Muet del libro “La costruzione logica dell’architettura” pubblicato da Marsilio come quarto volume della collana “quaderni di architettura e urbanistica” e che ancora conservo religiosamente tra i miei volumi più cari. Un volume d’affezione un livre de chevet che per anni ho tenuto in evidenza e che per anni faceva bella mostra sui tavoli della mitica Libreria Dedalo di viale Rossini per poi finire, a pacchi sulle bancherelle dei remainders romani. Sono andato a cercarlo quel volumetto, ormai piuttosto malconcio e mi sono ritrovato per le mani una vera e propria reliquia capace di suscitare ancora emozioni, suggerire, anche alla distanza, domande e interrogativi; che, innanzitutto, colpisce per la sua scabra stringatezza che pare anticipare, manifestandolo, il carattere del suo autore e di tutta la sua opera successiva poche pagine, illustrazioni straordinarie che ancora affascinano per la loro chiarezza, la loro lucida didascalicità; un libro letto e riletto, sottolineato spesso con foga a memorizzarne concetti che hanno inciso poi in profondità nella mente de giovane lettore che si era aggiudicato quello strabiliante tesoro per una cifra più che esigua, l’equivalente attuale di un euro, negli ultimi giorni del sessantotto. Un piccolo grande libro dove intravedere alcune cose di Mies, di Loos, di Hilberseimer, di Klein, di Oud, ma, soprattutto, e per la prima volta, di Tessenow allora un vero e proprio tabù per la Scuola di Roma.
Citare Tessenow significava incorrere, almeno, in imbarazzati silenzi, se non in vere e proprie scene isteriche; bastava poco a far saltare i nervi all’epoca delle macrostrutture, degli assi attrezzati, e delle città-territorio; e, se bastava così poco a mettere in crisi un modello allora stra-vincente, ci sarà pure stata una ragione che magari ai più giovani sfuggiva ma che le generazioni più agée dovevano pur conoscere. Forse il segreto stava già nel titolo del pregevole volumetto; quell’idea di costruzione “logica” che tanto intrigava il giovin lettore e che costituiva già e di per se motivo attraente e che peraltro contribuì sicuramente alla misteriosa fortuna del fatidico libretto. “Logica”, “ragione”, “modernità” e insieme “storia”, “tipo”, “modello”, “manuale”, “mestiere”, tutte parole chiave di un sintetico dizionario del progettare che i giovani esibivano allora con orgoglio e naturalmente non senza iattanza e una buona dose di pregiudizio nei confronti di chi li invitava al progetto iniziandoli all’architettura tenendo un bel fiasco di vino rosso o almeno un bicchiere di Whisky in bell’evidenza, sul tavolo da disegno.
Un libro che fu quindi una speciale iniziazione, o almeno un antidoto potente allo sciocchezzaio corrivo di una stagione al fondo mai morta dove l’architettura si sposa alla politica, alla finanza, alla moda, ai media e perde il suo senso più profondo, semplice, ma vero di autentico “mestiere”. E così alla logica intrinseca di un processo storico a lungo stratificato, si affianca la logica profonda di un saper fare mai improvviso che cresce per gradi e complessità e non si estingue nella babele e nella banalità dei linguaggi a buon mercato.
Di questo daranno poi conto con abbondanza le “Osservazioni elementari sul costruire” ove Grassi antologizzando Tessenow ci restituisce il senso di una via europea ai significati profondi, ai valori fondanti del costruire e che costituirà un ulteriore punto fermo per un’intera generazione alla ricerca di ideali alternativi al guazzabuglio di una sedicente postmodernità priva di etica e di qualità.
Siamo alla metà degli anni settanta, uno dei momenti più bui del nostro recente passato, dove anche l’architettura italiana si spese per dissolversi nelle infinite geroglifiche mosse e mossette di un incerto affacciarsi al futuro e quelle di un insensato e scenografico ripiegamento su di un passato mai stato. In tutto il profluvio di archi e colonne, di cornicette e frontoncini di colori e di colorini di quegli anni ove furono in pochi a resistere ai richiami più sciocchi e Grassi quasi arroccato nel suo studio milanese resiste quindi da par suo lasciandoci, oltre al alcuni esemplari progetti di concorso, un progetto capace di passare alla storia per la sua esemplare icasticità simbolica. La Casa dello studente dell’Università di Chieti diventa così un punto di riferimento importante capace di portare concretezza ad un lavoro che pareva avviarsi, involontariamente, verso la pura teoria. La scuola di Pescara che vide all’epoca un gruppo di feroci grassiani della prima ora organizzarsi in una vera e propria testa di ponte e si costituirà così, tra i settanta e gli ottanta, quale riferimento capace di triangolare esperienze e metodi ben al di la delle più evidenti dimensioni territoriali di quella esperienza fondante. L’infernale trio grassiano, Antonio, Agostino e Giorgio (il Bello, il Brutto e il Cattivo), diventa così un punto di riferimento nel variegato panorama universitario nazionale e nel nome del progetto di architettura, della logica e del mestiere, combatte la sua battaglia in un isolamento, per lo più, ostile. In diverse situazioni locali si organizzano poi addirittura degli speciali fan club territoriali votati all’autentico culto grassiano, vere e proprie testuggini ultra e, anch’io, personalmente, sono stato testimone di un episodio, certo minore, sicuramente marginale, ma non per questo meno significativo, svoltosi a Roma sul finire dei Settanta e che vide proprio la Casa dello Studente come suo protagonista. In occasione dell’inaugurazione della nuova libreria degli studenti della facoltà di valle Giulia infatti, e considerando opportuno per l’occasione l’allestimento di una prima mostra di architettura contemporanea, la scelta cadde proprio sul progetto della Casa dello Studente e Grassi, molto generosamente inviò i disegni originali, per l’occasione fu anche stampato un rudimentale manifesto del quale fu tirato un numero spropositato di copie, alcune migliaia, da vendere per finanziare la nascente iniziativa libraria, uno scoop, un vero e proprio asso nella manica. Ricordo la frenesia delle fasi organizzative, il tutto avveniva in un clima un po’ carbonaro nel locale di un garage nei pressi della Facoltà, l’attesa per il vernissage, la trepida attesa dell’evento, tutto pronto, le luci, i salatini, le patatine, la Fanta, il fatidico manifesto, le premesse per un clamoroso successo c’erano tutte, ma … non venne praticamente nessuno, … i manifesti, a migliaia, restarono nei loro cospicui involti di carta da pacchi e ci vollero anni per smaltire quel ben di Dio e soprattutto per assorbire quel debito preliminare che pesò come una zavorra infinita sul bilancio già precocemente asfittico della giovane cooperativa; e non credo di andare lontano dal vero immaginando che qualche pacco di quel fantastico manifesto che riproduceva la famosa prospettiva, sia ancora depositato nel suo involto intatto sotto il letto di qualche socio arrabbiato, ma pronto a sventolarlo un giorno, in piazza, chissà, … quando l’ora x scatterà.
Passarono quindi degli anni, il progetto per Chieti procedeva più che lentamente, una tipica fabbrica italiana, di Grassi si diceva che fosse spesso a Berlino o magari in Spagna, chissà? Poi un giorno la visione, la rivelazione il progetto epocale e che vale una vita: il “restauro” del Teatro romano di Sagunto. Tutto quello che avresti voluto avere dalla vita. Un’opera unica, sensazionale, irripetibile, … paradossalmente, anche e altrimenti, normale. Un’opera costruita oggi così come per secoli si sono edificate architetture e città, stratificando evento su evento, pietra su pietra, scrivendo una pagina sull’altra, usando la storia come naturale supporto del suo proseguire edilizio, senza tabù e senza finzioni. In verità un tabù c’era e Grassi da par suo l’ignorò e giustamente usò dell’archeologia come di un materiale tra gli altri, di un supporto dal quale far procedere “naturalmente” la sua fabbrica. Un’opera del tutto impensabile in un paese come il nostro e che solo le relativamente fortuite circostanze storiche del particolare momento della storia di Spagna furono capaci di consentire fino al dispiegamento concreto di uno dei caposaldi dell’architettura europea del secolo scorso, punto di arrivo di una riflessione “logica” e altrimenti paradossale che ne costituisce i fondamenti stessi dell’unicità. Le polemiche che seguirono ne furono il necessario corollario.
Opera unica e sicuramente irripetibile per le sue intrinseche caratteristiche il Teatro di Sagunto rappresenta quindi un caposaldo metodologico al quale guardare con interesse e speranza senza lasciarci intimidire dalle polemiche interessate; un progetto dove risuonano in chiave attuale le intuizioni di Alberti e di Viollet e che dovrebbe far riflettere sugli incerti destini della modernità e sulla fragilità del progetto architettonico contemporaneo.
Lasciata giustamente l’Italia al suo destino la sperimentazione di Grassi cerca in Europa le occasioni per verificare sul corpo vivo della città storica le sue ipotesi di lavoro. L’occasione di Groningen si offre così come l’occasione di un confronto plateale anche con le attardate manifestazioni di un pompierismo post-modern-radical-chic che sull’isola depositano uno dei ricorrenti sconclusionati repertori di insensate bagattelles. Grassi con la sua biblioteca riesce così a lasciarci una testimonianza illuminante del suo modus operandi attraverso la rigorosissima scelta progettuale che inibendosi qualsiasi concessione formale trova la cifra essenziale, “logica” per un linguaggio senza tempo, sospeso nella storia, in singolare assonanza con i suoi amori giovanili, restituendo all’attualità della città europea il senso più profondo e rigoroso del tipo. Le assonanze tra il progetto di Groningen e le pagine de “La costruzione logica …” sono impressionanti e testimoniano con eloquenza della capacità delle idee di non invecchiare, del progettista di non deflettere, anzi di rafforzarsi invece proprio nel confronto con la volgare quotidianità del contemporaneo. Lo sciocco pastiche del team mendiniano pare quindi conferire ulteriore forza, significato e valore ad un’opera che è già un capolavoro dell’understatement, silenziosa e consapevole del suo valore fatto anche della capacità di sintonizzare i bisogni del presente con le condizioni fondanti del contesto e della sua storia.
E bisogna dire che questa lungimirante fuga dall’Italia ha consentito al Nostro di intercettare altre realtà più aperte e dinamiche ove proseguire la sua ricerca sperimentando in concrete occasioni di progetto. Così Berlino che da tempo costituiva un punto di riferimento importante per le sue riflessioni disciplinari e che già in occasione del concorso per gli edifici della Lutzlowplatz aveva offerto l’occasione per una proposta di progetto di grande fascino e di cospicuo respiro urbano, con il complesso di edifici realizzati nei pressi della Potsdamerplatz torna al centro delle riflessioni di Grassi. Qui, ancora una volta, il contesto segnato da alcuni dei più volgari e ciclopici esempi di architettura globale, dall’edificio di Rogers a quello di Jahn, da quello di Kollhoff a quello di Piano, si offre quale scenario antagonista per ribadire l’insensatezza di quelle pur diffuse scelte progettuali e per ribadire la correttezza di un assunto elementare fatto di un’adesione alle ragioni del contesto, di una moderata selezione del tipo, di un discreto rapporto con la materia edilizia del sito, della silenziosa consapevolezza di una prospettiva vincente attraverso un progetto che trova le ragioni della sua forza e del suo affermarsi, anche e soprattutto, nella debolezza circostante di tanta rumorosa indifferenza. Al di là del canale si respira quindi un’altra aria fatta di rispetto delle regole e della storia, di rigore e di autocontrollo, di educazione condivisa; una serie di scelte che portano anche ad un certo ricercato ed esibito isolamento e che fanno di Grassi un “isolato” vittima del suo stesso “rigore”, per più versi “inattuale” che, come il “suo” Alberti, ha “indicato per primo una strada, una strada nuova, difficile e senza alternative, ma piena di promesse per gli spiriti liberi e disinteressati. Una strada che però non è mai diventata una strada maestra dell’architettura. Una strada che richiedeva troppa dedizione e sacrificio per poterlo diventare …”.
Per concludere, ci si conceda il vezzo di un’autocitazione riprendendo, pari pari, in tutta la sua nativa rozzezza, ma anche i tutta la sua verità, un nostro breve commento tratto da Archiwatch, il nostro, più che autarchico, blog, e buttato giù a caldo in occasione della recente apparizione romana di Grassi:
“Tra understatement e sprezzatura … Giorgio Grassi a Valle Giulia …
Giorgio Grassi … gran rifondarolo … alla maniera dell’Alberti …
da Schinkel a Grassi … passando per Loos, … Tessenow e … Alberti …
elogio dell’assenza …
G.G. … una specie di Grande Gatsby dell’architettura …
impareggiabile … inimitabile …
si saranno pure incazzati in molti, … ma, … chi se ne frega …
a la noi “lezione” di Giorgio Grassi a Valle Giulia … ha fatto venire le lacrime agli occhi … c’è piaciuta … un botto …
una volta tanto abbiamo trovato al posto dei nani e delle ballerine consueti, una persona, … una persona normale, per bene, che ha fatto e detto delle cose … normali … quindi: … eccezionale …
in platea, tra la folla, anche il giornalista belloccio e famoso … l’opinion-leader dell’architettese capitolino … fresco premio in-arch … per i suoi “servizi” sul più importante quotidiano nazionale … venuto a vedere chi mai fosse ‘sto Grassi, … letteralmente e per sua stessa, incauta, ammissione … “mai sentito” … prima …
così uno dei più importanti architetti, … teorici dell’architettura, … chiamatelo come vi pare, … del mondo … finalmente a Roma …
ma, praticamente, anche un mezzo sconosciuto per intere generazioni allevate alle smorfie e ai vezzi manierati dei cascami cascanti dello star-system … è approdato, dopo decenni, a Valle Giulia …
vedere l’aula magna stracolma … per un invito organizzato dagli studenti … è stata una bella soddisfazione … come se qualche cosa di epocale fosse accaduto … un po’ di aria nuova … in tanta accademica neoavanguardia … fasulla e modernetta … decerebrata, vanesia e arrogante …
architettura con i piedi per terra e la testa al posto suo … una serie di edifici seri e composti, educati alle buone regole di un ragionamento antico e allo stesso tempo attualissimo … una vera sberla per tanti mentecatti … un vero calcio nel culo per quanti ancora si arrabattano nei vari salottini capitolini … sul nulla … di un attivismo mercantile e insensato alla ricerca di una connivenza economica e modaiola … quasi che l’architettura fosse solo il prolungamento di una multinazionale o di un affare di borsa più o meno losco … quasi che la scuola fosse solo l’anticamera di un rivenditore di software grafico per produrre caddisti triennalizzati di basso rango …
e pensando alla scuola … vengono pure alla memoria gli anni di quando si doveva “sgrassare” Pescara …
oggi, per lo più, solo starnazzanti suffragette prestinenziali, … il più delle volte celate sotto il burka dell’anonimato, … che sputano le loro freccette avvelenate dalla cerbottana zigzagante di un anticlassicismo romanesco e di maniera ammantato di modernetto-littorial-organico-zevian-hadidiano … con tanto di tanfo palazzinaro da sagrestia …
così scopriamo che Grassi non va bene ai globali creativi (ma questo certo ce lo aspettavamo, tanto è ovvio …), ma anche ai muratoriani più incalliti e di più ristretta osservanza … (pazienza …)
tanto a noi Grassi … ce piace … lo stesso, … sempre lo stesso …
ché con Giorgio, … come con Leon Battista: …
“nasce un nuovo tipo di architetto, […] rispettato, stimato, fors’anche ammirato dai colleghi, ma pur sempre isolato; forte soltanto della sua ragione, della sua intelligenza e determinazione, solitario e lucido […]. Quindi un nuovo tipo di architetto di cui però si è perso subito lo stampo”.
G.M.
in:
Una casa è una casa, scritti sul pensiero e sull’opera di Giorgio Grassi,
a cura di Sivia Malcovati,
Franco Angeli, Milano, 2011.
Eppure, quel “piccolo grande libro”, fu scritto e pubblicato -a detta dello stesso Grassi quel giorno-, in maniera veloce e disordinata, perchè l’autore potesse accedere alla cattedra di “Caratteri distributivi”. Credo che questa resti l’unica affermazione “vera” di quello straordinario incontro. Sul resto, da bravi romani, ci siamo fatti prendere un pò in giro, incapaci di smentirlo, tanta la forza della sua architettura. Geniale.
Semplicemente grazie.
A tutti e due i giorgi.
Per i pensieri di architetture. Per le architetture di pensieri.
Purtroppo si tratta di un bilancio dei miei debiti che non è sanabile.
Difficile fare le bucce a “cotanto architetto” quando il panorama era (… ed è…) tutt’altro che allegro.
Certo, capire quale “corollario logico” escludano le falde dalle costruzioni , o quale teorema uguagli, inesorabilmente, tutte le finestre; o per quale logica a Chieti i solai di copertura siano così esili e poco inclinati, aiuterebbe a penetrare la bontà della proposta.
Forse perchè è una logica molto personale ed in quanto tale esclude, o pone ai margini, per definizione, il linguaggio “comune”…quello parlato da tutto il resto del costruito.
Il “becero” sospetto che si tratti di banalissima “cifra personale”, lo colloca nello stesso girone di coloro che conbatte con fermezza.
E si che il modello, il “maestro” (…per chi non è in grado di fare astrazioni…), c’era .
Tessonow: che non lasciava un dettaglio al caso ed all’arbitrio…
Ma costui non è italiano, e non si porta dietro quel pesante, opprimente, “trasversale” fardello, della originalità a tutti i costi: forse credeva anche lui ai lamed wufnicks: uno scherzo sinistro alle nostre latitudini.
Saluto
Grazie Prof. Muratore
Oggi a Milano, invece di Grassi, ad ispirare i giovani studenti, abbiamo Stefano Boeri. Che è anche assessore alla moda. Mica cazzi.