Claudio D’Amato è una figura quanto mai complessa, nello stesso tempo molteplice e unitaria. Nutrito di spirito classico, da sempre interessato a un rapporto creativo tra architettura e archeologia, pervaso da meditate intenzioni trattatistiche, si era formato studiando a fondo l’architettura moderna, analizzata nelle sue tematiche e nei suoi protagonisti con uno sguardo storico-critico. In questo contesto ha dedicato anni ai lavori di Mario Ridolfi, sulla cui opera aveva curato, assieme a Francesco Cellini, un’esauriente pubblicazione dei disegni presenti nell’Accademia Nazionale di San Luca. Dopo aver ricevuto qualche anno addietro il Premio Presidente della Repubblica su segnalazione della stessa Accademia, ne era divenuto successivamente membro. Come architetto l’autore della Facoltà di Agraria nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria – un grande edificio acropolico – aveva una forte attitudine alla speculazione teorica, nella quale una rara chiarezza di pensiero si affiancava a convinzioni nelle quali la profondità delle riflessioni concettuali conviveva con una visione aperta e anticonvenzionale dell’architettura. Alla propensione alla teoria egli sapeva unire una notevole capacità organizzativa, dimostrata nella fondazione della Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari, la città in cui era nato, una scuola da lui resa nel corso degli anni un importante avamposto della didattica e della ricerca. Essa ha dato luogo tra l’altro a un Dottorato tra i migliori a livello nazionale e internazionale, il cui esito è stato una fioritura di studi fondamentali su figure e momenti dell’architettura del Novecento. Il suo carattere era deciso, autorevole, a volte autoritario, ma sempre a servizio della missione della sua vita, ovvero l’insegnamento come finalità assoluta, rispetto alla quale subordinare ogni altra scelta. Nel 2018 aveva fatto dono alla Facoltà della sua ricca biblioteca, che ha costituito il nucleo fondativo di quella del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura. Prima della sua scomparsa, dovuta a una malattia che aveva contrastato per anni con un coraggio ammirevole, continuando ogni giorno, fino all’ultimo, il suo lavoro, aveva appena pubblicato un libro, La scuola di architettura in Italia 1919-2012, che rimarrà come una delle testimonianze più ampie e coerenti della storia dell’insegnamento dell’architettura nel nostro Paese. Si tratta di una straordinaria lezione su come leggere il passato considerandolo traccia vitale di un futuro dell’architettura più adeguata ai nuovi e spesso poco esplorati orizzonti della disciplina. Ai primi di giugno, con una sorprendente forza di volontà, aveva animato il Convegno “Didattica e ricerca” presso l’Accademia Nazionale di San Luca. Nonostante la dedizione costante alla scuola e la sua critica radicale al progettare moderno e contemporaneo basato su una durata relativa del manufatto – un’idea che ricordava l’identificazione che Baudelaire affermava tra modernità ed effimero – Claudio D’Amato non rifiutava il confronto dialettico con altre posizioni. Anche se sosteneva che l’architettura dovesse nascere da una comprensione attiva della sua storia, seguendo la lezione di Paolo Portoghesi, e per questo non amasse le approssimazioni o la mancanza di solide appartenenze a precisi orientamenti, sapeva infatti valutare, approfondire e apprezzare punti di vista diversi, anche quando erano molto lontani dal suo mondo architettonico, costruire in pietra all’insegna di una nuova idea di stereometria. Un’idea che trovava in una assidua sperimentazione digitale risorse in grado di renderla operante, nonché ancora attuale. La mostra da lui concepita per la Biennale di Architettura di Venezia, del 2006, rimane un punto fermo di questo suo appassionato e produttivo impegno didattico e scientifico, un manifesto ideale della sua visione dell’architettura, sostenuta in lui dalla necessità di un costruire più consapevole, in accordo con la natura e i luoghi, alimentato da una tecnica nutrita di umanesimo, priva per questo di quella totalizzazione futurista e di quella mitologia mediatica della tecnologia, divenuta nell’età digitale un fine e non più uno strumento. Chi scrive è convinto che l’eredità culturale di Claudio D’Amato non sarà limitata solo ai ricordi di coloro che lo hanno conosciuto e frequentato, perchè la sua opera, nel suo insieme, sarà nei prossimi anni sempre più necessaria per un miglioramento progressivo dell’abitare.
Franco Purini
Agosto 2019
nella foto: Lo studio di via Adda nel 1967. Da sinistra Mario Spada, Franco Cervellini (in ginocchio), Sergio Petruccioli, Claudio D’Amato, Enzo Cera, Sergio Petrini.