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Davvero appropriata la vignetta del Cascioli sul nuovo “look” della fontana del tritone, ma solo perchè, a mio modesto parere, sembra alludere alle contraddizioni di una ben nota scuola di pensiero, che poi è quella nella quale confluiscono tutti i “puristi” della cosiddetta “patina del tempo”. Considerando infatti che il colluttorio è complementare alla pulizia dentale così come l’anestesia è complementare alla cura della carie (almeno nei casi più gravi), potremmo ragionevolmente presumere che i seguaci del Brandi siano poco avezzi all’uso del colluttorio, giacchè una precisa tesi del restauro (quello conservativo), dovrebbe indurli a fasse tappà li buchi dei denti lasciandoli però incrostati dar tartaro (essendo quest’ultimo perfettamente etichettabile come “patina del tempo”). Ed è appunto questa la cosa che fa ridere, anche in considerazione del fatto che vi sono ben poche probabilità che un restauratore (uomo o donna che sia) non si sia recato dal dentista almeno una volta nella vita col preciso proposito de sbiancasse li denti. La verità (se vogliare parlare seriamente), è che il problema non sta a livello concettuale (sbiancamo o nu’ sbiancamo), ma solo a livello metodologico: nessuna persona di buon senso penserebbe de rimove er tartaro cor frullino, quindi, per quanto concerne le incrostazioni dei monumenti, è evidente che il problema è solo quello di calibrare l’intensità dell’abrasione. Ai tempi della sabbiatura, la soluzione del problema poteva essere difficile, se non impossibile, quindi l’azione abrasiva non era esente da spiacevoli effetti collaterali, come avvenne nell’ambito della cosiddetta operazione “Paris Claire” degli anni ’60, il cui effetto “sbiancante”, secondo le cronache dell’epoca, finì col danneggiare ben 66000 edifici storici. Ma al giorno d’oggi, grazie alla microsabbiatura, l’intensità dell’abrasione può essere calibrata con una precisione che potremmo definire chirurgica: la stessa, per intenderci, che consente al dentista di rimuovere qualunque strato di tartaro (foss’anche il più coriaceo) senza danneggiare lo smalto, che poi è concettualmente analogo a quella “patina nobile” che fu appunto danneggiata (ma solo per difetto di conoscenza) nell’ambito della succitata operazione “Paris Claire”. In sintesi, potremmo dire che lo smalto sta alla “patina nobile” come il tartaro sta alla “patina del tempo” (che, a differenza della “patina nobile”, non protegge dal degrado, ma è piuttosto una conseguenza del degrado: quello generato da smog, piogge acide, ecc.). Circa la microsabbiatura (tecnica, come ripeto, di altissima precisione), non sarà superfluo ricordare che essa può ormai ritenersi collaudata anche nello specifico dei monumenti romani, perfino in presenza di pietre molto tenere e/o fortemente alterate, tanto è vero che questa tecnica fu impiegata con successo sul travertino della chiesa di Santa Susanna (dopo che si era constatata l’inefficacia dei trattamenti con acqua nebulizzata e impacchi di carbonato d’ammonio). Insomma, se oggi la tecnica ce consente de sbiancà senza danneggià la “patina nobile”, non capisco per quale motivo dovremmo rinunciarvi… Scusate ma proprio non lo capisco… Che ve devo dì… E’ più forte de me…
MA INFATTI … tanto è che l’archicefalico ancora non ha capito che er colluttorio nun se deve mandà’ giù … certo che poi c’ha i mal de pancia…. e comunque … mamma mia che fatica … a parte che vedrai quanto poco ce mette la patina nobile ma anche quella del tempo a farsi nuovamente vedere … vedrai … vedrai … li … al Tritone …poi …
Guarda Andrea, che forse sto dicendo una scioccheezza che traggo da qualche neurone mezzo addormentato ma ricordo (pensa quante ne ho sentiti di modi per proteggere la pietra in cinquanta anni!). Ci si preoccupava allora della Colonna Traiana (fu uno dei motivi, non il meno nobile per preservare i fini bassorilievi, di demolireVia dei Fori Imperiali). Non ne ricordo il nome ma uno non sprovveduto propose di asportare la patina grassa dello smog automobilistico con periodici lavaggi con il caglio del latte. Un po’ di mozzarelle in meno ma un buon sacrificio. Chissa’ si potrebbe provare per arrivare alla patina nobile del Colosseo. Potremmo cosi’ risolvere anche la diatriba con l’UE sulle quote-latte.
IHo tempo da perdere e vorrei segnalare un’ altra fontana ben conosciuta. E’ quella che, di fianco a Palazzo Pecci-Blunt, sta davanti la rampa del Campidoglio. Se non ricordo male, da due conche l’acqua scroscia sulla bella vasca a terra. Nello scorrere del tempo l’acqua ha lasciato sul bordo delle due conche superiori un grosso deposito di calcare che scende come un bianco velo. L’effetto del calcare reso lucido dallo scivolare dell’acqua sia di giorno sia e specialmente con l’illuminazione notturna, mi e’ sempre parso bellissimo. Recentemente ho visto la fontana in secco e la decorazione calcarea asciutta non mi e’ piu’ apparsa cosi’ bella. I casi sono due, o e’ solo un problema di conduttura idrica e c’e’ da sperare che verra’ riparata ma se l’intenzione e’ quella di “restaurarla” asportando il deposito calcareo mi dispiacerebbe, ma di molto. Ogni fontana ha esigenze diverse come ogni essere vivente.
Sì però prima di criticare i “seguaci del Brandi” potrebbe risultare utile sapere come la pensano veramente, Ad esempio leggersi quanto scritto da Giovanni Carbonara sulle puliture della facciata di S, Pietro (quella di Zander e poi quelle di Benedetti). Diversamente da quanto affermato nel thread precedente, ad esempio, erano proprio “seguaci del Brandi” coloro che eseguirono i restauri della Sistina e a criticarli fu soprattutto il prof. James Beck di cui tutto può dirsi tranne che fosse brandiano. Quella che insozzava gli affreschi di Michelangelo, infatti, non era certo “patina del tempo” bensì fuliggine.
Sono assolutamente d’accordo con quanto scritto da Baldoni e, visto che ha tirato in ballo James Beck, vale forse la pena ricordare due righe dal suo “L’arte violata. Una valutazione sulla cultura del restauro” a proposito dei restauri dell’Ilaria del Carretto: “Raccontai anche di essere stato a Pietrasanta, il luogo dove Michelangelo aveva raccolto marmo e tuttora attivo centro di scultura, per poter parlare con artisti, copisti e fonditori. Un vecchio copista mi aveva spiegato come gli scultori del passato lasciassero certe incavature, rozzamente intagliate, per creare zone dove lo ‘sporco’ si potesse depositare creando effetti di chiaroscuro. Gli scultori erano dunque ben consapevoli che le loro opere sarebbero invecchiate e operavano in previsione di questo inevitabile processo”.
‘Sporco’ è volutamente virgolettato perché un conto è rimuovere le ‘aggiunte’ del degrado (il tartaro, appunto), altro conto è rimuovere le preziose e inevitabili ‘aggiunte’ del tempo: la patina. Quest’ultima, fra l’altro, si accorda all’invecchiamento del monumento o dell’edificio e a sua volta accorda questo al contesto; per tornare all’esempio di Andrea Di Martino, un ottantenne con la pelle tirata, senza una ruga, coi capelli perfettamente neri e i denti bianchi con tanto di scintilla al riflesso della luce, che effetto può produrre? Un esempio in tal senso è offerto, dal punto di vista meramente estetico, dal signore decaduto giusto ieri.
Quindi, al di là delle simpatie per Brandi o Conti, per Beck o Philippot, al di là di ogni personale considerazione sulla legittimità teorica ancor prima che pratica di riportare “all’antico splendore” il monumento, si tratta di calibrare l’intervento. Certo, operazione difficile in particolare sulle superfici in quanto, come osserva Bellini, “la superficie registra il mutamento”; a maggior ragione è qui che dovrebbero esplicitarsi la sensibilità e le capacità del restauratore. Senza toccare il tasto dolente dei vari sponsor e del mecenatismo artistico, argomento sul quale si aprirebbe una voragine.
Saluti,
Sergio Cardone