IL SEGRETO DELLA STORIA: VENZONE
“Articoli recenti di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera e di Paolo Rumiz su Repubblica continuano ad alimentare il mito di Venzone quale città ricostruita «dov’era com’era» dopo il sisma del 1976 da capimastri locali scacciati gli architetti mandati dalla Soprintendenza. La verità, documentata in volume recente da Francesca Sartogo (“Udine e Venzone”, Firenze, Alinea 2008) è che Venzone è stata ricostruita con un progetto guida commissionato dall’«Icomos» a Gianfranco Caniggia e collaboratori e che la sua riuscita deriva, guarda un po’, dal non essere propriamente «com’era» ma uno dei frutti di una teoria progettuale valida non tanto per i restauri, come in questo caso, ma soprattutto per la realizzazione di nuovi quartieri come nel PEEP di Costa degli Ometti da lui costruito a Genova o nel non realizzato progetto di concorso a Campo di Marte a Venezia.
Forse soggiogati da autoriali figure di architetti non pare possibile che ci sia chi lavori senza lasciare la «firma», costruendo città straordinarie per il loro non avere niente di speciale. Proprio all’anonimità, la stessa della migliore architettura razionale moderna, rieduca tutta l’opera di Caniggia che intende rifondare una tradizione edile smarrita con il boom economico degli anni ’60 e compianta nei requiem di Pier Paolo Pasolini per Sana’a o per Orte in cui, senza speranze, il paesaggio italiano è dato per spacciato. Invece, complice il terremoto, Caniggia elimina le case del dopoguerra in stile «villetta» e aggiorna il linguaggio architettonico degli edifici storici non in un finto gotico venzonese ma in un’essenzialità di forme in cui recupera i reperti decorativi: «Non ricostruzione totale indifferente alla precedente configurazione, né ricostruzione “dov’era com’era” per pedissequa imitazione della realtà ante-sisma. Non una riproduzione fac-simile, anastatica, ma una riedizione critica del palinsesto».
Il problema è non perdere nella ricostruzione la filigrana di case concresciute incorporando case precedenti, la trama degli allineamenti delle cornici, della diversa dimensione delle finestre tra piano e piano, del fuori asse di un portone, la complessità di un millenario processo di formazione non documentabile per intero dai catasti storici e che allora occorre riscrivere, «riprogettare».
Affinché i progetti esecutivi e i cantieri per altre zone potessero essere affidati a professionisti locali (un sopralluogo era talvolta richiesto all’architetto romano solo nei casi «interpretativi» particolarmente difficili), tra i disegni realizzati per la contrada campione di Via Albertone del Colle, oltre a tavole di analisi tassonomiche dei caratteri tecnologici e decorativi del costruito, quattro elaborati erano (sono) didatticamente chiari (quelli sintetizzati in figura), perché divenisse patrimonio comune un’intelligenza “processuale” nel comporre l’architettura in grado di mettere la sordina sia all’anastilosi che alla creatività: un rilevamento storico critico integrato da indagini di archivio e fotografie ante sisma; una riprogettazione della contrada interpretando archeologicamente il rilievo in una sua prima fase medievale di edificazione con case a corte; un terzo disegno riprogetta la fase rinascimentale quando le case a corte gotiche sono rifuse in palazzetti monofamiliari; infine si arriva a uno schema di base per gli esecutivi in cui i palazzi rinascimentali sono plurifamiliarizzati in case in linea, fase che qui, come nel resto d’Italia, va dal XVII sec. fino ad oggi. Come in un addestramento agli scacchi la prima partita si gioca solo con pedoni, torri e re; nelle partite successive si inseriscono i cavalli, poi gli alfieri, infine le regine e intanto si apprende la complessità organica di giocare con tutti e trentadue i pezzi.
Nelle operazioni di riscrittura ci si confronta con la tradizione edile sul tavolo da disegno con ostinazione logica e razionale, senza compiacimenti, nostalgia o revival e, fase dopo fase, solo i segni architettonici validi tra quelli rilevati vanno a definire piante e facciate. Così, riprogettando la realtà, forse c’è la possibilità che il superego dell’architetto si dissolva.”
giancarlo galassi
Fa riflettere l’eliminazione dal progetto della tanto esaltata apologia universitaria dello schizzo artistico e del taccuino alla Le Corbusier o alla Aalto. Non è che sarà alla fine un metodo che richiede così tanto studio e fatica da essere legato alla personalità di Caniggia tanto quanto gli schizzi a quella degli altri…
da giovani studenti a Firenze, alla fine di una lezione, mi pare con Natalini ma non ci giuro, un mio collega indicando uno schizzettino alla lavagna chiese come ci si dovesse approcciare al suddetto per sviluppare il progetto; il prof. si levo gli occhiali, lo guardò bene e rispose_”ragazzo mio, non ha capito nulla! guardi che lo schizzo si fà sempre alla fine….”
Purtroppo sono richiesti studio (ad esempio ristudiare Fasolo e Milani – ma anche, risalendo, Archinti e Melani – e Pagano! Pagano!) e disciplina inusuali (redarre tre-quattro progetti anziché solo uno [Venzone nel caso in esempio], stendere relazioni che sono studi storici di valore sulla casa [Venezia, Campo di Marte, relazione premiata – progetto no] , approntare e far passare varianti al prg in vigore senza averne avuto commissione e quindi senza tornaconti [Quartiere di Quinto]) e questo lascia molto perplessi architetti e studenti: “ma chi me lo fa fare!”.
La fatica è soprattutto quella di non perdere l’attenzione. L’attenzione profonda su se stessi. Senza infingimenti e narcisismi.
Come ho cercato di far intuire in due paginette, il metodo è certamente spiazzante rispetto a quanto insegnato a Valle Giulia nei corsi di composizione da un centinaio di anni e quindi capirete che non è tanto facile mettere in discussione di una tradizione didattica che aveva in programma negli anni ’50 la progettazione di una ‘Casa del pescatore’ e che oggi al primo anno insegna la ‘Villa unifamiliare isolata’ così per liberare l’artista in nuce in ogni entusiasta discente. Artista non si nasce si diventa. Come ricordava don MIlani citando la rivoluzione cubana: il cattivo scolaro non può essere un buon rivoluzionario.
Date come premesse il «non ho tempo da perdere per studiare storia perché sottrarrebbe tempo alla ben più importante ricerca creativa di forme nuove con le quali esprimere la mia originalità di progettista» oppure il «linguaggio tradizionale è stato distrutto dalle avanguardie e l’imperativo è tornare a un revival storicistico risalente agli anni ’20 del secolo scorso» è facile, gentile Lorenzo, liquidare la faticosa ‘processualità’ in architettura come uno stile che può essere incollato a una singola individualità.