Riceviamo da Giuseppe Gabriele e volentieri vi giriamo:
“La casa popolare oggi in Italia
pensieri in una notte di mezza estate
Leggevo qualche tempo fa e riflettevo sulle percentuali di social housing nella “casa comune europea”: 4% di edilizia pubblica in Italia contro quasi il 40% in Olanda…
In compenso abbiamo una quantità enorme di riviste di architettura patinate passerelle delle archistar e numerosissimi architetti che insegnamo nelle scuole medie perché privi di lavoro professionale..
Leggevo qualche tempo fa e riflettevo su una data importante nella storia dell’architettura: l’anno 1930, in quell’anno furono progettate e realizzate in Europa tre abitazioni paradigmatiche dell’idea di moderno in architettura la Ville Savoje di Le Corbusier, la casa Tugendhat di Mies Van der Rohe, e la casa Muller di Loos.
Le prime due sono presenti in tutte le storie dell’architettura moderna, ed hanno fatto scuola, entrambi sono state abbandonate dai rispettivi proprietari perché sovradimensionate e non rispondenti ai fondamentali requisiti di abitabilità, ma ad un’idea astratta di modernità, la casa di Loos molto meno pubblicata e molto più capace conciliare tradizione e innovazione, è abitata senza soluzioni di continuità.
E’ qui forse che bisogna cercare le radici della degenerazione dell’architettura di oggi?
Lo stesso Loos combatteva in quegli anni un ardua battaglia con la municipalità di Vienna perché proponeva un’idea di architettura popolare realmente rispondente alle esigenze delle classi lavoratrici, semplice e concreta, lontana dagli ideologismi che hanno portato a realizzare i famosi Hofe che di popolare non hanno nulla. Il vincitore del Nobel dell’architettura dello scorso anno J. Nouvel, una superstar della scena mondiale, in un intervento di edilizia sovvenzionata per Vienna qualche anno fa ha sostanzialmente riproposto le stesse tipologie ideate da Loos a distanza di parecchi decenni.
Non voglio fare l’apologia di quest’ultimo come d’altro canto non voglio disconoscere la genialità di Le Corbusier o Mies, ma l’abitare è un’altra cosa e nessuno meglio di Loos lo ha compreso nel 900, sia che fosse un abitare aristocratico, borghese o operaio.
Nelle Siedlung viennesi degli anni 20 Loos proponeva delle soluzioni ancora oggi attualissime in questo periodo di crisi simile per tanti versi a quello in cui egli operava seguente il crollo dell’impero austriaco.
Prevedeva che le case fossero autocostruite con un’assistenza tecnica, delle varianti ai rigidi regolamenti edilizi, una dotazione di orti capace di assicurare la sussistenza degli abitanti, il compostaggio dei rifiuti organici etc. insomma quell’architettura sostenibile di cui tanto si parla in Italia oggi. Certo dietro c’è un’idea di città diffusa a bassa densità, ma è ancora proponibile la città dei blocchi edilizi multipiano, questi “incubi ad aria condizionata” in cui tutti viviamo?
P.S.:
Ricordo, anche se è un ricordo un po’ vago, che da piccolo un giorno venne in casa un signore che mi affidò un piccolo salvadanaio in legno a forma di casa nel quale mi invitò a mettere i miei risparmi ed un libretto per poi depositarli in banca.
Anche questo rientrava nel progetto I.N.A.Casa: il risparmio per finanziare la costruzione di abitazioni e credo che da quel piano voluto da Fanfani siano sorti i più bei brani di città nell’ Italia del 900. Continuo a pensare che risparmio, casa, lavoro,famiglia siano fatti concatenati .
Cordiali saluti”
Giuseppe Gabriele
Trapani





Forse Loos andrebbe considerato, questo sì attuale come “metodo” progettuale da “recuperare”, per il Rauplan, come composizione nello spazio.
Fdm
Ovviamente trattasi di raumplan, era scappata la (m); comunque, per il Maestro: ” E come un giorno l’uomo riuscirà a giocare a scacchi su un cubo, così anche gli altri architetti risolveranno il problema della pianta nello spazio”..appunto la pianta e lo spazio.
saluti
è traumatico leggere in sequenza una riflessione così densa e poi un commento così insulso.
Con tutto il rispetto, ma anche sincerità, caro Franco. (notare il famigerato “ma anche”)
……..
Penso con Giuseppe Gabriele che sia necessario affrontare questo mestiere con un approccio profondamente etico, orientato a soddisfare bisogni reali in modo sostenibile. Ed è quello che faccio.
L’etica nella nostra professione dovrebbe essere la stessa del medico, ed Ippocrate un lume anche per noi.
Qualche anno fa dicevo, in rare occasioni, che un nuovo rinascimento era iniziato per l’architettura, in conseguenza anche dell’addio alla Cortina di Ferro ed alla riconversione della tecnologia bellica nel settore civile.
Con la velocità contemporanea credo si sia già passati attraverso il barocco al rococò, ed una nuova accademia si stà già consolidando.
La sequenza è fatale, già Bruno Munari la sottolineava nel 1971.
Da qualche anno mi dicevo che la nuova Casabella di Dal Cò, nel perseguire con rigore il suo preciso programma culturale, avrebbe dovuto smettere di presentare le copertine con i nomi delle star di volta in volta pubblicate, ma semplicemente con i temi di volta in volta affrontati.
Rilevo ora che la conversione è in atto e che l’insegna sta passando con una dissolvenza incrociata dalla prima forma alla seconda.
La vera crisi è culturale e se quella economico finanziaria non la scalfisce arriverà il peggio.
Le crisi sono momenti di cambiamento da uno stato ad un’altro, certo, ma quella degli anni trenta anticipò la guerra mondiale.
L’ultimo numero di Lotus propone un’analisi scientifica sul recente fenomeno dell’architettura iconica, il suo sodalizio con l’economia globalizzata e gli effetti sull’urban design, come conseguenza più che altro degli interessi politico-economici al marketing urbano.
Mi chiedo se il mio disagio rispetto a questi fenomeni sia dovuto a una miopia culturale o alla percezione di una connessa insostenibilità economica, sociale ed ambientale.
Fondamentalmente queste operazioni iconiche, ormai messe a punto come orologi, non mi sembra che tengano in conto azioni rivolte ad affrontare i riflessi urbani e sociali di fenomeni macrospopici come la migrazione di massa dall’Africa, ed i crescente travaso di popolazione sui paesi occidentali e in via di sviluppo.
Non si vede affrontare il tema della fine dell’era del petrolio, se non nell’idea, direi extragalattica, degli emirati arabi di convertire la propria economia dal petrolio al turismo di lusso, che però ora si regge sull’economia del petrolio.
Culturalmente noi architetti siamo in condizione incidere, perchè ne siamo veicoli a vari livelli, dalla padrona di casa agli enti pubblici, dagli studenti ai mass media.
E’ auspicabile convergere su questo tema ed elaborare un quadro più consapevole della situazione, per poter esercitare il nostro ruolo in forma storicamente significativa.
“La vera crisi è culturale, e se quella economico-finanziaria non la scalfisce arriverà il peggio.”P.G. Perna
E’ verissimo.
Egr. Perna,
la ringrazio per aver dedicato ben due righe della sua attenzione a quanto ho scritto circa il Raumplan Loosiano, “ma anche” (vedo che segue le parodie televisive di wuolter wueltroni, fa bene divertono anche me; pensi che ridevo già di quelle fatte da Guzzanti, figlio non padre, quello ora se la prende con Silvio…) vorrei precisare quanto segue. Non volendo intervenire direttamente sulla riflessione di G. Gabriele – che peraltro condivido (ma anche no…delle volte il dubbio diventa “ma anchismo”, direbbe il Nostro) – intendevo porre l’attenzione sull’aspetto del raumplan loosiano, essendo stata citata la nota casa degli anni trenta. La frase del Maestro, quella del saper giocare a scacchi su un cubo, pone l’attenzione su un aspetto cardine del progettare architettonico: quello della PIANTA e del suo saper diventare SPAZIO; nel caso delle abitazioni, tale metodologia si traduce nella concatenazione spaziale di ambienti, spesso comunicanti visivamente tra loro, di diversa altezza a seconda, anche (non ma anche…) della loro diversa funzione (spazi più pubblici, oppure più privati quali stanze da letto, spazi adibiti allo studio etc). Appunto il Raumplan. Interessanti contributi, al riguardo, si trovano nei testi di R.Trevisol per Laterza oppure nell’opera completa di G. denti per Officina Edizioni
La metodologia del progettare “partendo dalla pianta” – per poi diventare spazio – è quanto di più antico (e Classico) per un architetto e, quindi, ancora attuale. Potrebbe approfondire l’argomento, circa la Classicità di Adolf Loos, andandosi a leggere la prefazione di Aldo Rossi (altro sommo Maestro) contenuta nel testo di Benedetto Gravagnuolo.
Dare dell’insulso al pensiero altrui, fa fare sempre una brutta figura….
Parafrasando il noto detto einaudiano “Conoscere per deliberare”, che prima di esprimersi convenga conoscere ciò di cui si pretende di parlare?
La saluto cordialmente……”ma anche” non cordialmente.
FdM
Caro Franco,
ad ogni riga delle tue parole la mia simpatia nei tuoi confronti sale come la scala della torre di Babele.
E’ tutto giusto quello che dici. …ma in riscontro alle parole di Giuseppe la tua osservazione mi sembra della serie: “gioco a coppe e rispondi a bastoni?”, oppure: “ma che ci’azzecca!” (per restare nel colorito politichese contemporaneo).
La mia “brutalità” verso il tuo intervento è stata, come dire, “un mezzo di contrasto” per esaltare la stima nei confronti della sua ispirata riflessione.
Non me ne volere.
Grazie Manuela, la tua condivisione mi fa sentire meno solo con i tempi che corrono.
“il sogno di una casa….di un lavoro …di una famiglia”…. forse c’è rimasto solo il sogno. Io la vedo nera. Se penso che in media un piano regolatore, tra programmazione, analisi e progetto, viene adottato, osservato e approvato nel giro di 20 anni….mi viene da pensare che quando è diventato vigente è ormai superato! E allora….ci pensa qualche costruttore, con l’amico sindaco compiacente, ad approvare varianti, accordi di programma, ad aderire a qualche “agenzia di sviluppo provincia” o ad adottare qualche piano integrato per rimettere a posto uno strumento che non funziona più. E così questa bella torta che si chiama “Città” viene tagliata, spartita e mangiata.
Quella famosa puntata di Report sull’edilizia romana ce la dovremmo ricordare sempre. Di come è stata massacrata la periferia romana in un pugno di anni. Proprio quella periferia che avevamo amato attraverso i mejo poeti contemporanei, su tutti Pasolini. L’altro giorno sono passato, quasi per caso, in quella stradina che collega la Via Tuscolana alla Via Appia. Sono entrato nel quartiere INA Casa costruito negli anni cinquanta da Muratori, De Renzi e altri. Un capolavoro! Ho avuto la sensazione che chi vive in quelle case (o in quel quartiere) abbia l’impressione di vivere in una “casa”. Chi invece, con grandissimi sacrifici, è riuscito ad acquistare un appartamento alla Bufalotta (per esempio)….non so se potrà avere la stessa sensazione……purtroppo.
“Il paradosso delle case non abitate” Vittorio Emiliani
“Corriere della Sera-Roma” di oggi 17 settembre 2009 – giovedì –
Vittorio Emiliani torna sulla questione delle case sfitte (245.000, una ogni 7 esistenti) e sulla
“protesta contro il vincolo che la Soprintendenza ai Beni Architettonici intende porre sulla porzione di Agro Romano (5.400 ha) , molto bella, fra Laurentina e Ardeatina. Vincolo che doveva figurare fra le 130 osservazioni (“inascoltate” a detta del Ministero) al recente PRG.”
Continua, Emiliani, sottolineando come a tante case vuote corrisponda una vera “fame” di case. E ciò accade ora che
“la capitale viene da un “boom” edilizio durato sette anni, tutto dedicato al mercato.”
E ancora:
“Prima di aggiungere altre colate di cemento a quelle ancora da smaltire, converrebbe riflettere su cosa e come costruire. Il Piano Casa riguarda per lo più chi la casa (villa, villetta, ecc.) ce l’ha già e potrebbe ampliarla. Bisogna puntare sul recupero del vasto patrimonio edilizio vuoto o sotto-utilizzato, a cominciare da quello pubblico. E’ la sola in grado di soddisfare la domanda, sin qui trascurara, di giovani coppie, immigrati, studenti, anziani soli (sfrattati dalla cartolarizzazione o smarriti in alloggi troppo grandi).
L’esigenza di risparmiare suoli – agricoli, verdi, comunque liberi – s’impone pure a Roma. Dove l’Agro superstite rappresenta una straordinaria riserva di biodiversità (1/5 di tutte le piante italiane, moltissime autoctone; nidi per metà degli uccelli del Lazio, ecc.), di agricoltura qualificata, di beni culturali: quasi 700 casali, 84 torri, 16 borghi, 31 chiese, gli imponenti acquedotti romani, ecc.
Fino a quando, se tanti, troppi suoi terreni sono degradati a pratacci in attesa dell’inesorabile cemento/asfalto?”
Come dire meglio di così?
Un ringraziamento a Vittorio Emiliani per la sua analisi chiara, come sempre.
Secondo me la stura alla speculazione ha preso le mosse dall’Anno Santo del 2000, aggravando la situazione abitativa esplosa negli anni’70 con l’introduzione dell’Equo Canone, per paradosso.
L’Anno Santo ha fatto intravvedere guadagni ancora più lauti a chi “riqualificò” immobili d’affitto (cartolarizzazione) trasformandoli in strutture di accoglienza, in alberghi e “bed & breakfast di charme”, in sedi parlamentari, in uffici prestigiosi. Questo è accaduto principalmente in Centro e nelle zone storiche della città. La ventata di rinnovamento ha colpito all’orbigna, come dice Camilleri.
Aggiungo al dramma vero delle abitazioni il conseguente e vero degrado commerciale accelerato ancora di più dal 2000 in poi, trasformando un’occasione di sviluppo in una realtà di arrembaggio. E in cemento, brutto, nelle nostre belle e necessarie campagne.