Architecture Without Architects … (2) …

AWA2

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Aporie diffuse, quindi, di un modo di intendere la modernità che va, talvolta, ben al di là delle intenzioni dei profeti, degli epigoni e degli esegeti per seguire gli itinerari labirintici e iniziatici di una contaminazione che non è di oggi, ma che affonda le sue radici proprio nella complessità di una condizione intellettuale fortemente storicizzata nel contesto europeo degli ultimi due secoli e delle sue ricorrenti, sintomatiche, straordinarie e affascinanti (più e meno palesi) contraddizioni. È così che nel lavoro di Rudofsky possiamo insieme rileggere, al fondo degli etimi del suo rinnovato e ampliato Grand Tour Globale (che lo trascina dalla Cina all’Anatolia, dal Magreb al Sahara, dal Marocco allo Yemen), prima ancora della sua, la stagione “napoletana” e “mediterranea” di Hamilton, di Goethe e di Schinkel. Rilettura che ci rinvia alla memoria dei tanti intellettuali europei “maturati” e “illuminati” anche e specialmente dal sole del Golfo e delle Isole, a Gide, a Gorky, a Malaparte, a Clavel, a Marinetti, a Peyrefitte, ma anche a Hoffmann, a Loos, a Böcklin, a Savinio, a D’ölker, a Melis, alla Kowaliska, e “naturalmente” a Le Corbusier e ai “moderni” nostrani, da Capponi a Cocchia, a Cosenza, da Cambellotti a Limongelli, da Marconi a Tufaroli, da Petrucci a Libera, da Terragni a Ponti, dallo stesso Marcello Piacentini a Giuseppe Pagano, fino a Leonardo Ricci e a Paolo Soleri che, per tanti versi, sono rimasti, e ben più di altri, coinvolti nella fascinosa e, peraltro, assai controversa “eredità” rudofskyana. A tutti questi poi si potrebbero affiancare tanti altri nomi ad ampliarne ancora la dimensione geografica delle “ricadute” culturali, qui ci basti considerare il senso ineliminabile del suo contributo per quanto riguarda, almeno, il lavoro di José Antonio Coderch, da un lato, e quello di Luis Barragàn, dall’altro, dell’Atlantico. Ma poiché abbiamo toccato, sia pur di sfuggita, il contributo e le interferenze tra il Nostro e alcuni significativi esponenti del cosiddetto “razionalismo” italiano, che sappiamo quanto contaminato dalle dimensioni antropologiche e ideologiche del “regionalismo” internazionale, non possiamo naturalmente tacere di quella straordinaria occasione che fu, per la nostra cultura, l’esperienza della mostra sulla “Architettura Rurale Italiana” curata da Pagano e Daniel per la Triennale milanese del ’36. Mostra che fu anche motivo per una profonda revisione critica delle futuristiche e un po’ utopiche e acerbe certezze di tanto ingenuo e macchinistico funzionalismo e che apriva, con largo anticipo, agli argomenti di un nuovo “realismo” critico del quale Piacentini e Ponti, prima, e Rogers, poi, furono, ciascuno a suo modo, interpreti e protagonisti. Scriveva Giuseppe Pagano nell’introdurre quel catalogo: “Questo immenso dizionario della logica costruttiva dell’uomo, creatore di forme astratte e di fantasie plastiche spiegabili con evidenti legami col suolo, coi clima, con l’economia, con la tecnica, ci è aperto davanti agli occhi con l’architettura rurale. [ … ] la reazione al formalismo accademico dell’Ottocento e l’indagine obbiettiva e realistica che anima il mondo moderno come una imperativa opposizione della ragione contro la retorica dei tabù decorativi; la stessa abitudine morale dell’architetto contemporaneo di sottoporre la propria fantasia artistica alle leggi dell’utilità, della tecnica, dell’economia senza tuttavia rinnegare il fine estetico della sua fatica; […] ci fanno superare ogni ritegno nel ricercare una dimostrazione storicamente documentata dei rapporti intercorsi tra l’architettura dei libri di storia e il soddisfacimento delle più semplici e meno vanitose necessità costruttive realizzate dall’uomo, con uno spirito di meraviglioso primitivismo“.
Tutti argomenti che vanno ben oltre i temi trattati, appena un anno prima, in Dopo Sant’Elia e dove lo stesso Pagano insieme, tra gli altri, a Argan, Marangoni, Levi, Pica e Venturi, aveva già tracciato una sommaria sintesi dei principi di una modernità rinnovata cercando, ieri, come oggi, di individuare i caratteri di una via specifica e convincente per l’architettura italiana delle nuove generazioni.
G.M.
(in “D’Architettura”, n.17, maggio-agosto 2002)

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21 risposte a Architecture Without Architects … (2) …

  1. Biz ha detto:

    Bello, grazie d’averlo proposto. Per me si tratta di cose che ho recuperato e non vissuto.
    Solo un sospetto: che questo approccio di Rudofsky fosse affetto in parte di “buonselvaggismo” o “spontaneismo”. O meglio, che non contenesse sufficienti anticorpi per esso.
    E’ infatti certamente errore ingenuo, parlando di queste cose, usare il termine “architettura spontanea”, o cose di questo genere.

  2. Biz ha detto:

    piuttosto, si potrebbe parlare al massimo di “coscienza spontanea” :-)

  3. memmo54 ha detto:

    Assolutamente Illegibile !!!

    Astenersi Perditempo

    Grazie…

  4. isabella guarini ha detto:

    L’immagine della facciata del casale rurale, quadrata e simmetrica, con un fornice alla base e una finestra arcuata in sommità, non sarà stata progettata, ma mostra tutta la sua appartenenza all’architettura classica romana, tramandata dai millenni precedenti. Architettura senza tempo, senza decorazione, perché è la decorazione che denota l’appartenenza a un sistema culturale e politico. Le forme geometriche elementari, invece, nella loro essenzialità trasmettono il valore dell’abitare, della casa con cui gli esseri umani si proteggono dalle intemperie e dai pericoli e dove vive la propria famiglia. Nell’architettura rurale non c’è un progetto specifico, ma l’imitazione dei tanti progetti che si sono realizzati , da cui i costruttori copiano soluzioni e tecniche. Si potrebbe affermare che fatto un progetto archetipo, come realizzazione architettonica, per molto tempo lo si è fotocopiato con l’effetto della perdita dei particolari, di volta in volta, a causa dell’esaurirsi della cartuccia d’inchiostro. Ma resistono gli elementi essenzial, il muro, la porta, la finestra, il tetto, come avviene negli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano.

  5. pasquale cerullo ha detto:

    Ecco, però quello che chiarisce Isabella Guarini è solo un aspetto, tutto occidentale, della tradizione culturale architettonica rurale, legato alle maestranze locali, isolate dai grandi centri urbani. In altri ambiti geografici la classicità non era conosciuta ed i non architetti si rifacevano ad altri riferimenti, ambientali.
    Ho un dubbio, ma Rudofsky nella lontana mostra del lontano 1964, espose veramente l’immagine che illustra questo Post? Perché non sarebbe stata rispettosa del suo progetto di studio. Architettura senza archietti=archiettura senza riferimenti. A-storica a-temporale.
    Secondo me, no.

  6. adelaideregazzoni ha detto:

    cara isabella, dici alcune cose che vanno abbastanza bene, ma ti vorrei invitare a studiare molto per non confonderti in alcuni confronti. ade regazzoni

  7. Hod Konja ha detto:

    La foto è di Giuseppe Pagano e compare nel primo pannello della Mostra dell’Architettura Rurale del 1936 e a pagina 8 del libro omonimo scritto con Daniel. Pagano la pubblica soprattutto per il pagliaio alle spalle della rimessa, ma i bravi architetti ovviamente non vedono che quel grande e scenografico arco pomposo. Non c’è speranza.

  8. isabella guarini ha detto:

    Cara adelaideregazzoni, ti ringrazio per il consiglio perché nella vita non si deve smettere mai di studiare, ma in questo blog i consigli si scambiano perciò ti invito a far funzionare di più l’immaginazione altrimenti i confronti diventano pedanti e fossilizzanti. Potresti leggere Verso un’Architettura di Le Corbusier o il Viaggio d’Oriente. Dopo potremmo parlarne, se puoi.

  9. franco di monaco ha detto:

    All’interessante “lettura” della Guarini, aggiungerei: “Non bisogna andare dall’Architetto per sapere cos’è l’architettura, ma magari dal contadino e vedere perchè la sua cucina e l’aia antistante sono così grandi: ogni spazio è modellato sulle necessità dei rapporti umani che vi si svolgono” Giovanni Michelucci.
    Quanto, “all’assenza di un progetto specifico” dell’architettura rurale, è un’affermazione sbagliata, esistono intere collane di studi sulla “tipologia” di tale architettura (a proposito di studiare…). Basterebbero questi a confutare, sia l’affermazione della Guarini, che i “desolanti”, e quasi mai appropriati, interventi di recupero di tale architettura.

    Saluti
    FdM

  10. Biz ha detto:

    Non mi piace il clima dei commenti a questo scritto, un po’ da architetti bisbetici.
    Hod Konja, ad esempio. Ok, ci fa capire d’avere a casa sia il libro di Rudofky, che quello della mostra fotografica di Pagano … insomma, è un “pedigreed architect” che dà lezioni di “non pedigreed architecture”.
    Bene. E così, lui sa che la cosa importante della foto tratta dalla mostra di Pagano non è “lo scenografico arco pomposo” ma il covone.
    Beh, francamente io pensavo che fossero importanti entrambe, in quella foto.
    Però il tema dell’arco, credo che comunque debba avere una rilevanza, nel 1936.
    Elementi, archi e volte, che erano stati, mi pare, di fatto espunti dal lessico della “architettura moderna”, e che verranno di fatto “sdoganati” in essa solo dopo la seconda guerra.
    Uno “sdoganamento” che passò attraverso il ritrovo di archi e volte al di fuori dalla tradizione della architettura classica e “pedigreed”.
    Ad esempio, da Le Corbusier, in suoi riferimenti specifici alla architettura “vernacolare” del mediterraneo.
    Fuori dall’Europa, negli stessi anni Hassan Fathy scopriva nelle sue campagne le volte e gli archi in mattoni crudi, resti e vivi retaggi di costruzioni di epoca pre-romana, e li riusa contro l’uso indisciminato dei telai in c.a.

    E allora, mi pare, caro Hod Konja, che non serva a niente fare gli snob e mostrarsi “pedigreed architect” se poi, di fronte ad una immagine di questo genere, ci si limita a snobbare gli architetti che notano “l’arco pomposo”.
    Forse è vero, in certi casi non c’è speranza.

  11. sergio 1943 ha detto:

    Scusate…..(uffa! sempre ‘sto sergio 43 con i suoi ricordi e aneddoti del piffero!), Il fatto é che io ci sono nato in una casa rurale, con la sua disposizione secondo il volgere del sole tenendo conto di solstizi ed equinozi, il cucinone con l’enorme camino davanti al quale, al caldo della fiamma, rabbrividevamo di spavento ai racconti dei vecchi su fantasmi, lupi mannari e streghe (non per niente a pochi chilometri c’erano i Monti Sibillini col Guerin Meschino e la strega Alcina), i materassi fatti con le foglie del granturco, la loggia con i vasetti del prezzemolo, la scala esterna dove passare pomeriggi al sole seduti sui gradini; bastava un fumetto e qualche figurina e le giornate non finivano mai. Bene! Quella casa non c’é più e dovetti ricostruirla in una lottizzazione poco più in basso. Vado in Comune, mi presentano il planivolumetrico, la solita follia da agrimensore per sfruttare fino all’ultimo metro quadro: tanti scacchi e tanti cubetti lì dove mio nonno mieteva il grano e raccoglieva le mele. Mi prese una tale rabbia che, scelto il lotto, presi quella forma a cubo imposta dalle norme e la scavai, la squartai, la frantumai finchè, ansante, di quel cubo rimase solo un vago ricordo. Nel mio progetto portai solo un elemento in ricordo di quel casale non dimenticato: la scala esterna dove, prima le mie figlie e adesso le mie nipotine, sedute sui caldi gradini, si asciugano al sole i capelli bagnati dal mare. Possiamo e dobbiamo parlare di skyscrapers e di tant’altro, io ci sguazzo in questo blog, come una carpa nel ruscello (perchè la carpa é un pesce d’acqua dolce!), però, si parva licet, anche quella scala esterna, in ricordo di una casa rurale, per me significa architettura…..

  12. isabella guarini ha detto:

    Il commento di Biz rileva la importante questione sullo sdoganamento delle forme tipiche della nostra architettura mediterranea e, in particolare, di quella romana degli archi, delle volte e del muro. Sgodanamento è la parola giusta perché il “moderno” aveva messo al bando tutto ciò che era accademico e storicistico. Rispondo anche a Kod Konja per la nota sul covone. Non ho fatto volutamente cenno al covone, pur notevole per le implicazioni di volumi semplici nella composizione, cilindro più cono, in quanto, per le sue caratteristiche materiche e di colore sono da riferire al soggetto della prima serie di opere di Monet in cui l’artista cerca di fissare sulla tela l’effetto provocato dalla luce sui covoni, nei diversi momenti della giornata o in diverse condizioni meteorologiche. Non ho voluto, in pratica affrontare la questione dell’incidenza della luce sulle forme architettoniche semplici e della complessità che ne deriva, vista l’immagine in bianco e nero, con poca modulazione plastica. Dunque, non solo ma anche.

  13. memmo54 ha detto:

    Purtroppo le carpe prediligono i fondali melmosi …
    E chissa come l’avrai ridotto quel “cubetto” …chissà te l’avranno mai perdonata…

  14. Hod Konja ha detto:

    Mi scuso con le persone cortesi che ho offeso con i toni di una disperazione, di una situazione senza speranza che è solo mia, che vedono solo i miei occhi intossicati di architettura.

    Sono un cialtrone di architetto che più spesso dovrebbe contenere le proprie frustrazioni anziché fustigare la buona educazione altrui.

    Auguratemi un tumore maligno, un infarto che stronchi questo inutile muscolo involontario che non ne può proprio più. Buonanotte.

  15. sergio1943 ha detto:

    Bah! Cavolata più, cavolata meno! Intanto anche tu, caro memmo carotenuto,…(ops! mi sono sbagliato con un caratterista comico della commedia all’italiana!) cerchi di concionare di architettura, no? Intanto tu ed io siamo la parte bassa di questo blog! …O forse, sapendo tutto sulle carpe, sei ferrato solamente in nozionistica varia? Chissà, se ti accettano, puoi guadagnare qualche euro in qualche trasmissione a quiz televisiva….Mannaggia! Tu te la cavi sempre con due righe mentre io so’ logorroico come Walter Chiari (pace all’anima sua!)! Vabbè! Forse data la mia età, ho più tempo di te da perdere! Spero che tu ne faccia buon uso!

  16. Alfonso Pezzi ha detto:

    Leggendo i commenti che sono stati recentemente pubblicati in questo interessante sito, faccio notare che una pericolosissima minaccia si sta impadronendo di Archiwatch e, ahimè, delle menti dei suoi attenti lettori. Si potrebbe chiamare questo fenomeno “invasione degli ultracorpi” o, più semplicemente, “Depressione”. I sintomi sono chiari: frequenti ricognizioni nel passato (della serie, si stava meglio quando si stava peggio…), continui rimandi a persone morte da decine o centinaia di anni, totale incomprensione del presente, mancanza di fiducia nel futuro.
    In Italia, comandano i morti… questo lo sapevo… ma non fino a questo punto…

  17. isabella guarini ha detto:

    I “lurker” leggono e non scrivono, solo qualche volta profetizzano.

  18. sergio1943 ha detto:

    Scusa, Pezzi. Siamo ospiti del blog di un professore di Storia dell’Architettura moderna e vuoi che non ci capiti di tanto in tanto di rievocare le lezioni dei nostri “trapassati”, più o meno recenti? Il problema é di vedere l’uso che abbiamo fatto della loro eredità o di verificare dialetticamente le nostre idee con le loro. Per superarle anche, ci mancherebbe, se sono più lucide! Oppure sei di quella categoria adolescienziale, nata quarant’anni fa, che reputa la storia cominciare con loro salvo poi concludersi, quando l’adolescenza ineluttabilmente declina, lasciandoli di fronte a una vuota maturità, alla desolazione di un deserto di risultati e di proposte? Della qual cosa tanti si lamentano non per rimpianto del passato, incomprensione del presente o mancanza di fiducia nel futuro ma perchè, Muratore ce lo ricorda sempre, non c’é futuro senza conoscere chi siamo e da dove veniamo.

  19. Cecco Mastandrea ha detto:

    Soprassediamo (come diceva Ciccio Ingrassia) sulla depressione e sullo “spione”.
    A Rudofsky io preferirei Nathan Silver :
    ” Ho in mente la nozione che l’architettura sia un sistema di gente,non un sistema di cose. Un’architettura senza architetti è impossibile poichè l’intenzione dell’uso è tutto, ma un’architettura senza edifici è possibilissima,in quanto le situazioni d’uso esistono indipendentemente da essi”.
    E ancora:”In architettura, l’agente formale,a rigore,può essere la gente”.
    Bruno Zevi inquadra a perfezione il senso del pensiero di Silver:”L’architetto per la gente progetta strade,parchi ponti,zone ricreative,spiagge sentieri montani:designa patterns comportamentali che non implicano necessariamente la realizzazione di edifici”.
    “In un’interpretazione così estensiva,i non-architetti,principalmente gli utenti,svolgono un ruolo essenziale nella progettazione architettonica?E’ proprio ciò che desideriamo:coinvolgerli”.

  20. Biz ha detto:

    Accidenti Hod Konja! E io che speravo in una polemica incandescente!
    Su con la vita!
    Uno degli insegnamenti che più mi ricordo di quelli ricevuti in facoltà, che tengo molto caro, me lo diede un professore che disse, ad un mio collega che stava facendo un progetto tristanzuolo : “Suvvia, un po’ di vita! Non dimentichi mai che noi, in fondo, siamo venditori d’allegria. E se un architetto vende tristezza, che cosa diventa?”
    (risposi a latere : “un architetro!” – ma confesso – la battuta geniale non era farina del mio sacco :-)

  21. Noein1985 ha detto:

    Anche se non sono propriamente un architetto o un ingegnere o un’artista, perchè da poco ho scoperto la passione per l’architettura. Noto con dispiacere che il senso dell’ architettura che voi tutti avete, è eccessivamente accademico in alcuni commenti. Credo che le opinioni di ognuno di voi siano fondamentali ed importanti, ma vorrei proporre una riflessione. Negli ultimi anni grazie alla standardizzazione del processo edilizio alla meccanicità della produzione di ogni singolo elemento d’edilizia, ci si spinge sempre più ad imitare forme simili a chi ha un nome importante e fa architettura, del resto sbagliando, e con risultati decisamente orrendi.
    Chiunque credo si sia emozionato guardando e studiando l’opera degli ultimi anni di architetti del calibro di Calatrava, Fuksas, Koolhas e tantissimi altri che non elenco, ma fanno davvero architettura?
    Credo che la vera architettura sia nel riscoprire esclusivamente
    la casa, nel rispetto non di indici altezze e metrature, quanto nell’ambiente in cui sentirsi appagati (qualcosa che un loft moderno o un appartamento in stile moderno/minimale non ti offre). Un esempio che mi viene immediatamente in mente è quello di Wright, di come organizzava la casa e della sua filosofia nel costruirla… (e pensare che non era nemmeno laureato :] !!)
    La sensazione che ho, è che si stia sempre di più perdendo il rapporto con l’ambiente interno e le necessità di chi ci vive quotidianamente.
    Dov’è l’architettura se il bello viene nascosto da alte torri?
    La piccola casa bugnata con la scala esterna, orientata e studiata nei dettagli per sfruttare al massimo ciò che l’ambiente offriva e non con logiche di guadagno e standardizzazione, mi emoziona, e mi parla di architettura più di un semplice parallelepipedo su maglie quadrate, che tanto piace a chi non sa fare altro che parallelepipedi (che tanto richiamano i lontani tempi del Bauhaus, ma ne sono orrende copie).
    Non tutti possono permettersi di fare architettura (io stessa non credo di esserne capace), il resto è per geometri.
    PS: scusate

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