“Le idee sono di tutti” … ?

Se è pur vero che “le idee sono di tutti” …
È altrettanto vero che oggi sono in molti a spacciare per proprie quelle degli altri …
Potrebbe essere l’incipit di un articolo sulla rinata “sindrome cinese” relativa ai “falsi” e al Made in Italy …
E, invece no, nulla di tutto questo, o … quasi …

Scrive Antonio Pennacchi su un numero recente de “L’Indipendente” a proposito di una mostra da poco inaugurata a Latina (“Città di fondazione italiane 1928-1942”) sotto il titolo “Città nuove e falsi storici”:
“Dice: ‘Sì vabbe’, però a te quello che ti rode è che questa mostra l’hanno fregata a te.‘ Certo, non si discute. Questi sono venuti a casa mia a vedere progetti, foto e materiali – mia moglie gli ha fatto pure da mangiare e ancora me lo rinfaccia – e poi se la sono fatta per conto loro, scopiazzando a rotta di collo pure i miei scritti. Il peggio però è che hanno copiato male” …

Caro Antonio, non ti incazzare, così va il mondo …
A me cose del genere sono capitate talmente tante volte che, come si dice, ci ho fatto il callo e ormai credo sia prassi comune … tra gentiluomini …
Solo negli ultimi due-tre anni almeno dieci volte …
Alla fine è meglio far finta di niente, ché se per caso ti scappa “l’idea è stata mia, … l’avevo già detto, … l’avevo già scritto …” non gliene frega niente a nessuno e magari ci fai pure la figura del fesso …
Però capisco che uno, doverosamente, almeno si “innervosisca” …

E così memore di una mia colossale incazzatura di qualche tempo fa ho ritrovato un articoletto che avevo mandato all’Unità e che ti rifilo qui appresso:

“In questi ultimi tempi, a Roma, si fa un gran parlare di architettura.
La città, la sua urbanistica e la sua edilizia sono oggetto di studi più e meno accurati e numerose sono le occasioni in cui pare tornare alla ribalta la vicenda urbana con i suoi luoghi, i suoi oggetti, i suoi protagonisti. Le case, le vie, le piazze, i monumenti, addirittura i “sampietrini” che quotidianamente calpestiamo, tornano “finalmente” a far parlare di sé. Si aprono mostre, si tengono dibattiti, si inaugurano nuove sedi espositive destinate alla valorizzazione di quanto più amiamo e consideriamo fondamentale nella cultura di una città, a misurarne la sua “civiltà”. Le cronache cittadine, sui quotidiani, sono piene di buone intenzioni: si parla di Roma Capitale, degli anni trenta, degli sventramenti e delle città di nuova fondazione, del dopoguerra, della ricostruzione, dell’Ina-Casa, del neorealismmo e della Dolce Vita.
Bene, anzi, benissimo! Ma, attenzione. Siamo veramente sicuri che quanto sta accadendo sia sintomo efficace di una autentica inversione di tendenza, di una più autentica e diffusa riappropriazione collettiva dell’architettura contemporanea, segnale di un’appartenenza necessaria e vitale del vivere associato o che non sia solo strumento di sempre nuove e magari ancor più subdole forme di persuasione mediatica tese a far apparire nuovo un prodotto di terza o di quarta mano, magari facendone addirittura veicolo di più e meno criptici e finalmente ritrovati messaggi ideologici ?
Avendo ormai speso un’intera vita su tali temi chi, come noi, si occupa di questo, non solo per diletto, ma anche e soprattutto per lavoro e per passione civile, non può fare a meno di notare alcuni aspetti della questione che non possono non lasciare piuttosto perplessi.
Da un lato, infatti, la quotidiana e ripetitiva insistenza su alcuni aspetti, peraltro fin qui già assai sondati, della storia urbana della città e che vede la fortunata “riscoperta” di alcuni periodi già assai criticati nel passato, come gli anni Trenta e gli anni Cinquanta se, da un lato, sono il sintomo evidente di un certo strisciante revisionismo che viene infine a toccare anche gli ambiti più tradizionalmente “riserva di caccia” della sinistra, ci sostiene nella necessità di una necessaria e più incisiva rilettura di quei momenti e di quelle situazioni. D’altro canto non v’è chi non veda quanto e come una fin troppo insistita attenzione su alcuni aspetti del nostro passato recente porti, oggi, ad altri e più delicati sdoganamenti ideali ed altrettanto ideologici di quelli contro i quali, sembrerebbe opportuna una più attrezzata presa di posizione scientifica, critica, operativa e quindi, anche e soprattutto, politica.
Facciamo quindi ttenzione alle svolte repertine e di massa, alle riletture “finalmente fuori dagli angusti schemi ideologici del passato”, argomenti sui quali anche noi ci siamo più volte e ripetutamente impegnati al fine di una conoscenza dei fatti più autentica, laica e storicamente distaccata. Negli ultimi tempi infatti ci pare che si sia insistito parecchio e non certo senza qualche ipocrisia nel senso di una sedicente “riscoperta” di fenomeni che erano palesemente sotto gli occhi di tutti da decenni e che non era ancora ed evidentemente “politicamente corretto” trattare “anche” con gli strumenti di un’autocritica, magari radicale.
Tra queste recenti proposte, ci piace qui ricordare a mo’ di esempio la recente rilettura di un testo “sacro” nella storiografia dell’urbanistica romana, quel “Roma Moderna” pubblicato da Italo Insolera nel 1962 e che è stato un caposaldo nella formazione di intere generazioni di giovani architetti, che, negli anni passati, anche noi abbiamo avuto occasione di mettere, più volte, in qualche modo e per taluni aspetti, in discussione. Ma, una cosa, è cercare di andare oltre quelle posizioni per approfondirne ulteriormente il portato documentario e scientifico e per aggiornarne, alla luce del quasi mezzo secolo trascorso, gli obiettivi e i riferimenti; altra cosa, è “imputarlo” inopinatamente di tutta una serie di “colpe” che avrebbero addirittura portato a ritardi ed errori nella gestione della politica urbanistica della città. Sicuramente errori e ritardi ci sono pure stati e sono sotto gli occhi di tutti, ma non si può certo giudicare con gli occhi dell’oggi il valore di un “monumento” culturale come quello che, nel bene e nel male, ha avuto il merito di fare il punto e di documentare, testimoniandolo, un momento tra i più cruenti nella dialettica, non solo culturale, della capitale. Fare questo è troppo facile e può addirittura suonare come lo stridulo e paludato controcanto alle “nuove dimensioni”, peraltro assai affini alle vecchie, della pianificazione e della progettazione urbanistica della nostra città. A chi giova accomunare Insolera e Cederna accusandoli sostanzialmente di mera attività di interdizione, portatori di un atteggiamento dirigista, neo-illuministico, snobistico e privo di una reale capacità di incidere sul reale non avendo “compreso” i termini reali attraverso i quali la città cresce, si modifica e si sviluppa? Che senso ha, infatti, notare puntigliosamente, come fa ad esempio Vittorio Vidotto nel suo recente “Roma contemporanea” (Laterza, 2001) che: < >, come se, tagliando “meglio” la foto aerea o fotografando altrimenti le note “palazzine” e gli altrettanto noti “abusi” romani, il senso di quelle “tendenziose” letture potesse e dovesse essere altrimenti interpetato?
Si può essere d’accordo sulla necessità di ripensare anche criticamente a quelle sacrosante denunce, ma è per lo meno imbarazzante ridicolizzarne l’autentica storicità, il senso più profondo di documento, di testimonianza etica e di denuncia politica. D’altro canto, sappiamo pure che la Storia non si fa con i “se”e altrettanto bene sappiamo che questo che proponiamo è un discorso difficile e che si svolge su un crinale pericoloso e sdrucciolevole, prestandosi ad equivoci e forse anche a malintesi.
E allora perché, proprio noi, che da una vita, stiamo sollecitando una più matura e attenta considerazione dei fenomeni avvenuti a cavallo tra ottocento e novecento, prima e del secondo conflitto mondiale, poi, ci dichiariamo insodisfatti se “finalmente” si porta più attenzione ai quei momenti cruciali della storia della nostra città?
Perché troppi sono i sintomi, troppe le incrinature logiche che ci pare ormai giunto il momento di lanciare qualche allarme, di costringerci ad una più certa e più vigile sensibilità intellettuale.
E allora perché, se ci siamo tante volte soffermati sulle “città nuove”, su Piacentini “maestro” del Novecento, sul Vittoriano, sul Palazzo di Giustizia, sull’archeologia industriale, sulla ricostruzione, sull’INA-Casa di Fanfani e di Foschini, sul restauro del moderno, sui concorsi di architettura e poi, adesso che “tutti” ne parlano, a destra e a sinistra, ci dichiariamo non del tutto convinti di quello che sta avvenendo?
Perché dal discorso alla chiacchera, dalla provocazione alla mercificazione, alla banale infatuazione dei neofiti, il passo è breve, quasi impercettibile, eppure sintomo irrimediabile di qualche catastrofe imminente. Infatti, il cretto logico che separa quegli studi contro-tendenza di qualche anno fa con il consenso diffuso e modaiolo di oggi è abissale e non risarcibile.
L’EUR, ad esempio, che già fu territorio di difficili e tanto spesso non condivise riletture fino agli anni ottanta è diventato ormai oggetto di mercificazione accelerata, non tanto e non solo sul piano della fiction pubblicitaria (ché questo non sarebbe nulla, pura scenografia), quanto soprattutto sul piano logico e inclinato di una “privatizzazione” arrembante e strisciante insieme che fa delle sue qualità estetiche un valore aggiunto che, come in tanti altri casi (i Musei, la cultura, la Scuola), conduce alla sua svendita anche come patrimonio collettivo culturale, sociale, della città intera.
Altrettanto dicasi per gran parte della città consolidata, dal centro più antico alle periferie storiche vittime insieme di una assurda pressione consumistica che nulla aggiunge alla dimensione culturale dell’utenza distratta, ma che molto significa sul piano di un incremento dei valori di scambio e quindi della riduzione a merce di quelle zone, di quelle aree, di quegli edifici, di quei “monumenti”.
I rischi della contraffazione logica e della vera e propria falsificazione culturale sono imminenti e palesi e le quattro mostre attualmente aperte a Roma, come pure il recente, ultimo convegno sulla figura di Bruno Zevi, ne sono, in misura diversa eppur congruente, in qualche modo, testimonianza. Infatti, dalla mostra “Roma 1948-1959” aperta da qualche settimana al Palazzo delle Esposizioni, a quella sull’INA-Casa ospitata nelle ex caserme di via Guido Reni, da quella sulle demolizioni della Roma fascista al Museo del Folklore fino a quella aperta proprio in questi giorni al San Michele dal titolo “Metafisica costruita”, ove più ove meno, ognuno fa la “sua” storia e in, più di un caso, si intravedono venature interpretative non facili da condividere che segnalano la pericolosa deriva di nuove e vecchie ideologie spacciate per rinnovati modelli storiografici. Ancora una volta, comune, regione, università, ministeri sembrano anteporre la presenza di una surrettizia quanto subdola e mai apertamente dichiarata prevalenza della politica là dove sarebbe stato assai più opportuno un ben più cospicuo impegno sul piano metodologico, scientifico e magari anche solo comunicativo ed espositivo. Se si escude qualche frammento di eccellenza, sparso qua e là, si tratta, “comunqe” di mostre piuttosto carenti, se non addirittura, e in più di un caso, pessime, anche sul piano dell’allestimento, cioè del rispetto delle istituzioni e quindi soprattutto del pubblico degli utenti o, meglio, degli incauti “consumatori”. (Roma 10.4.02)

Mi sembrava di aver semplicemente “segnalato” alcuni rischi piuttosto “condivisibili” … ma, da allora, le cose sono andate, sempre più, “alla maniera del Pennacchi” …
Mal comune … ?
Sicuramente no …
Ricordiamoci comunque che:

chi entra nella melma … prima o poi … affonda.

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3 Responses to “Le idee sono di tutti” … ?

  1. Isabella Guarini ha detto:

    Mi sembra molto difficile che si possa giungere in breve tempo alla obbiettiva conoscenza di quanto è avvenuto, in architettura, tra le due guerre mondiali in Italia. In primis perchè le università non hanno in programma lo studio di quel periodo . Se è vero che la storia, come la natura, non habet saltus, sarà necessario ordinare il materiale documentario per portarlo a conoscenza delle nuove generazioni sempre più tese a imitare i nuovi eventi dell’architettura “globale”. Insisto sul “globale” perchè non vedo chiarimenti in merito al rapporto tra storia e innovazione come base metodologica per l’insegnamento della progettazione architettonica. Isabella Guarini

  2. claudio marsilio ha detto:

    ah Isabbè! e me sà che te sei persa qualche esame in facoltà!
    “In primis perchè le università non hanno in programma lo studio di quel periodo”?
    Storia dell’architettura II, tanto per cominciare; Storia dell’architettura contemporanea, di quel signore che fuma la sigaretta sopra la striscia nera…Poi hai voglia te a riferimenti vari durante i corsi di Urbanistica etc…
    ma sei un architetto?
    saluti romaneschi
    Claudio

  3. Isabella Guarini ha detto:

    Bene! Le Università non sono tutte uguali e io non ho frequentato quella di Roma. In realtà fracevo riferimento alla necessità di diffondere la cononscenza dell’architettura italiana del primo novecento, che viene relegata a qualche cenno nei libri di storia dell’arte , specialmente in quelli adottati nelle scuole medie superiori. Quanti sanno chi è Giuseppe Vaccaro tra gli studenti che fanno l’esame di stato? Io, come architetto, l’ho imparato da sola. I corsi di urbanistica che ho frequentato, alla fine degli anni sessanta non accennavano nemmeno all’architettura italiana, per via del fascismo, tanto i docenti erano presi dalla lezione dell’architettura moderna internazionale. Caro Marsilio, statte’ buono, in napoletano!

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