PER VITTORIO GREGOTTI di Franco Purini

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Un ricordo e una speranza

Con la morte di Vittorio Gregotti viene a mancare uno dei più importanti protagonisti in Italia e all’estero dell’architettura della seconda metà del Novecento e dei primi venti anni del nuovo secolo. Credo sia impossibile in questa breve nota tracciare un profilo esauriente dell’architetto novarese, che studiò al Politecnico di Milano, città nella quale scelse poi di vivere la sua vicenda umana e culturale. MI limiterò a qualche cenno sulla sua lunga avventura architettonica. Allievo di Ernesto Rogers, presso il quale aveva lavorato da giovane, è stato un autorevole membro della redazione di “Casabella” durante la illuminata direzione del suo maestro, interrotta nel 1965. All’inizio degli anni Ottanta la storica rivista fu affidata a lui, che mise al centro della sua conduzione il principio della “modificazione” come strategia di ridefinizione orientata dell’evoluzione urbana. Autore di numerose opere in Italia e in altri Paesi, Vittorio Gregotti ha teorizzato in termini chiari e fortemente operanti, dopo la sua ricerca sull’idea di “territorio”, il passaggio dall’eroica architettura moderna a una più complessa, articolata e plurale, architettura contemporanea. Il tutto all’interno della convinzione che l’architettura sia l’esito di una ”pratica artistica”. Esposti in una lunga serie di libri, nei quali egli indagava la connessione del proprio mestiere con altri saperi in una circolarità concettuale e tematica, la sua visione del costruire è divenuta uno dei più determinanti riferimenti del nostro lavoro. Instancabile critico della globalizzazione come conseguenza di un neofunzionalismo soggetto al dominio della tecnologia, dei media e delle mode, caratterizzato da una sostenibilità intesa come l’ambito di sperimentazioni formali più che di vere e proprie innovazioni, nonché segnato dall’abbandono dei luoghi a favore di una progettazione atopica, Vittorio Gregotti ha cercato, fino ai suoi ultimi giorni, di ricondurre l’architettura alle sue antiche ragioni, radicate nell’abitare umano considerato in tutti i suoi aspetti in un dialogo profondo con il “principio insediativo”. Inteso, questo, come il risultato del rapporto tra la memoria del passato e l’immaginazione del futuro. Un dialogo che è storia vivente delle comunità.
Per concludere, ho avuto la fortuna di condividere alcune esperienze architettoniche con
Vittorio Gregotti nel momento in cui, dopo le sue prime opere, stava individuando le idee che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Alla luce di un rapporto con lui, dopo qualche anno di lavoro comune, durato più di mezzo secolo, ritengo che la sua scomparsa ponga a storici e critici dell’architettura un impegno urgente. Esso consiste secondo me non solo nel far sì che la sua eredità teorica rimanga attiva, ma soprattutto di riconoscere anche alla sua architettura, che spesso è lasciata tra le righe, l’autentico valore che essa possiede. Un esempio. Mi è sembrato incomprensibile, da molto tempo, che l’intervento della Bicocca non sia stato inteso, come dovrebbe essere, un precedente diretto della nuova Milano sorta negli ultimi anni. Spero che questa mia constatazione venga smentita da un interesse più motivato e preciso verso opere che hanno riflettuto, spesso in modo magistrale, i pochi momenti positivi e le tante difficoltà che l’architettura italiana ha vissuto.

Franco Purini
15 marzo 2020

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