Giovanni Michelucci: Chiesa dell’ Immacolata, 1966-1982
Gianni Avon, Francesco Tentori, Marco Zanuso: Cimitero a Muda Maè, 1966-1972
Ci eravamo preparati per tempo per il cinquantenario del Vajont, poi siamo andati in settimana sabbatica per sovresposizione da web e dopo, per venti giorni, le altre cose che avete visto ci erano più presenti e ci hanno portato altrove.
Ma per liberarmene, devo davvero condividere con voi, anche se con un mese di ritardo, questa sensazione di lutto monumentale elaborato, mi sembra, in maniera cinica da due capolavori dell’architettura italiana.
Il problema risiede nel fatto che la tragedia del Vajont è già architettonicamente sullo sfondo di tutta Longarone rendendo superfluo il sovraccarico di significati simbolici che gli architetti hanno dato al loro lavoro. La diga è ancora e per sempre lassù. Del resto l’impianto idroelettrico per cui è stata fatta mi pare funzioni ancora. Orrida sull’orrido. Inutile metafora di se stessa. Tragicamente fortissima. Titanic dell’edilizia. Sovrabbondante in monumentalità. Eccessiva in memoria.
Per ricordarla le due architetture sembrano sospendere la credulità, chiudono gli occhi e fanno finta che quella massa critica di cemento armato non ci sia oppure che appartenga disciplinarmente all’ingegneria e non all’architettura. Il cimitero si nasconde in trincea e, annullandosi volumetricamente per la veduta dei monti, fa spazio alla presenza della diga, tutto lo spazio possibile; la chiesa invece la sfida a brutto muso con una controfortezza dello stesso materiale di cui è fatta.
Per Avon, Tentori e Zanuso la morte è laica cancellazione del dramma che diventa un sospiro durante una malinconica e meditabonda passeggiata; Michelucci, invece, religiosamente, costruisce ben due chiese: al piano terra per i superstiti e i loro discendenti che però restano sepolti vivi sotto l’assemblea dei 1917 fantasmi longaronesi spazzati via dal fango, in eterno raccolti in preghiera dall’architetto nella chiesa superiore a cielo aperto.
Non è possibile che i nostri cuori si siano così induriti che abbiamo bisogno di artisti che ci spieghino tutto in maniera così didascalica anche quando è così evidente. Che ci intrattengano sul dramma. Siamo ancora capaci di alzare gli occhi e vedere quell’opera di land-art che sbarra la valle?
Se così fosse, allora, più modestamente, un quadriportico cimiteriale e una chiesa a tre navate sarebbero stati più significativi e mozzafiato per confrontarsi, nel silenzio proprio dell’architettura, con quell’urlo in cemento armato che arriva dalle montagne.
La spettacolarizzazione architettonico-artistica metabolizza la realtà fino all’alzata di spalle.
A malincuore (per la stima che nutro per gli autori) trovo il coraggio di dire che forse siamo ai livelli di lucida insensibilità, in buona fede sì ma non per questo meno colpevole, del Buzzati sul Corriere della Sera che all’indomani di quel 9 Ottobre 1963 commentò: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui».
Gian Carlo :Galassi
Caro :G, mi intriga la la tua pagnottella perche’ i suoi sapori (ultimamente un po’ salati?) mi riportano intatti, come sempre fa il pane di una volta, ricordi di lontane giovinezze. Non ne conosco le dosi, pero’ gli ingredienti mi sembrano famigliari. In quegli anni 60/70 nella Forneria di via Gramsci si impastava con entusiasmo un pane molto simile nella forma. Non ci chiedevamo a quali clienti fosse destinato, quello che contava era la forma
….scusa! Non e’ facile, alle 5 di mattina, costretto in orizzontale, scrivere battendo con l’indice sulla tastierina del telefonino e allora non mi dilungo). Fornai eccellenti e ragazzini infarinati usavano gli stessi stampi senza guardare troppo per il sottile se quel pane era destinato alla mensa dei poveri o alla tavola di un ambasciatore (con lo stesso stampo accrocchiai per un esame la pianta di una biblioteca, lucidai in un importante studio il progetto di una chiesa di periferia e a Longarone venne realizzato questa chiesa-teatro greco per rievocare sullo sfondo delle montagne l’eterna tragedia umana). Concordo che forse non era necessaria tanta vanagloriosa “nouvelle cousin” per ricordare gli assenti. Una chiesa piu’ intima con un piu’ semplice campanile come usano da queste parti, a punta piramidale o a punta a cipolla, meglio avrebbe interpretato l’essere dei montanari (parole un po’ a vanvera, ancora impastate di sonno, qualcosa in dissenso mi piacerebbe dire sull’arco della diga lassu’ ma adesso basta. Comunque e’ gradevole svegliarsi con ilprofumo e la fragranza di un pane appena sfornato. Ad meliora, :G!)
Quale meraviglia ! Galattico è poco.