Per approfondire e
confrontarmi con il ragionamento di Cristiano Cossu (che condivido e
che mi capita di fare spesso proprio negli stessi termini) e per
precisare il mio punto di vista incredibilmente postato postato allo
stesso minuto che invece da’ ragione a Pietro, è che c’è una differenza
enorme tra come costruivano i romani e come purtroppo siamo costretti a
costruire noi (quei pochi almeno che costruiscono come Loos o
Carmassi).
Basta vedere cosa succede nella Casa degli Augustali grazie
a immagini tratte dal sito sugli scavi di Ercolano.
Transenne,
murature piene, archi tamponati, solai che funzionano tecnologicamente
come una volta con zone di calcestruzzo a perdere ma sono realizzati
come un solaio… che dire: l’architettura più si studia più è complessa
e bellissima, basta avere gli strumenti per leggerla. Certamente non ha
mai gridato, per darsi una volontà d’Arte, una cosa sola per volta come
tanta architettura moderna.
Meglio: stava così zitta che diceva tutto,
“la pietra antica non emette suono o parla come il mondo e come il
sole, parole troppo grandi per un uomo”.
Oggi, prima di tracciare una
riga sul foglio, ci costringiamo, letteralmente “ci costringiamo”, a
metterci nei panni dei Romani, cioè a interpretare la romanità con
filtro di Piranesi, Choisy, Fasolo, Milani, Bonatz etc. Quanti
architetti si sono ispirati ad acquedotti per costruire nella periferia
di Roma come se bastasse a ritrovare il genius loci…
Con la modernità
(con Kant, se proprio vogliamo trovare un caposaldo, e con il diritto
tutto moderno non solo di sapere ma di sapere come sappiamo) abbiamo
perso la nostra innocenza ed è con duro studio che si può a malapena
sperare di simularla. Ma più si studia più la corteccia cerebrale
s’ispessisce e si perde di flessibilità e freschezza (duro paradosso
con cui fare i conti vero? ma non c’è alternativa).
Abbiamo perso la
spontaneità felice di usare una tecnica costruttiva, transenna oppure
muraria, in maniera non espressiva e bisogna essere fortunati o ben
bravi, bravi al cubo (vedi Asplund ad es.), quando “ci-caliamo-nei-
panni-di” per non metterci a fare il finto acquedotto la cui immagine
spiazzante (perciò fortemente artistica) è così forte che annulla ogni
giustificazione possibile di voler chiudere logicamente con archi un
partito su piloni, il che non rende “coerente” ma ridicola la sostanza
architettonica.
Ecco il perché dei periodici e salutari ritorni dei
migliori architetti del Moderno all’innocenza dell’architettura rurale
e quindi il titolo della nuova rubrica dedicata a Pagano che questo
blog ospita tanto per illudermi di diminuire il grado zero delle
chiacchere. E, a mio parere, non valgono i ritorni alle cornicette
barocche post post: in certe cose (non in tutto), ad esempio nei
dettagli (anzi nei non-dettagli), più che Pirani e Magni, ha più da
dire l’edilizia contemporanea abusiva di necessità.
Giancarlo Galassi
:G





Caro Giancarlo, la famosa frase loosiana sul paragone tra noi e i romani ovviamente non aveva nessun assunto tecnologico in senso stretto. Attingeva semmai a un’idea di spazio e quindi di forma: la solennità, i grandi “vuoti” interni che sembrano pieni, la continuità del muro e della sua massa, l’opposizione al frammentismo gotico e alle forze strutturali incanalate in linee o punti. Naturalmente Loos era anche un grande retorico, nel senso classico e buono del termine, quindi come hai ricordato il suo panorama esclude qualcosa. Ma resta la sostanza, e cioé un intento estetico/formale preciso, a mio parere facilmente riconoscibile in ogni progetto contemporaneo che si ispiri ad esso. Tanto per dire: Renzo Piano non potrebbe far sua questa frase (ha fatto una scelta diversa, da sempre), Carmassi si, Moneo pure, Kahn all’ennesima potenza, e così via. Poi in effetti possiamo discutere sul “come”, e lì vengono fuori le tue osservazioni, che su Carmassi condivido solo in parte.