Il gradino di Santiago …

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Sergio Cardone ci invia questo ragionevole commento sulla vexata quaestio del Calatrava lagunare …

“Frequento l’università a Venezia e, da mesi ormai, vedo quel ponte. Francamente mi chiedo se riuscirà mai a essere “inglobato”, quasi inconsciamente, nel contesto. Per alcuni in quel preciso punto di Venezia quel ponte non c’entra nulla, per altri è la morte sua.
Lo stesso quesito vale, peraltro, per la teca di Meier o chissà che altro. Rimane il fatto che, oggettivamente, così come la teca è un muro sul Tevere..analogamente il ponte calatravoso presenta degli errori progettuali, appunto oggettivi.
Io sono uno studente e lungi da me peccare di presunzione, anzi..ma non bisogna mica frequentare Architettura per capire che le pedate di un ponte del genere non possono e non devono essere in vetro…e se la gente cade (vedi notizia Ansa e servizio Tg5) non c’è poi da stupirsi. Va bene l’idea di creare il tappeto di luce da sopra sotto e da sotto sopra..ma sottosopra ci finiscono i passanti!
Per non parlare dei costi, triplicatisi insieme agli anni per realizzarlo (per non parlare dei costi di gestione, visto il numero di vigili urbani impiegati per sorvegliare che il ponte non venga imbrattato né attraversato con bagagli troppo pesanti).
Senza contare le fondazioni…forse avevano dimenticato le condizioni geotecniche molto particolari, quasi uniche, del sito. D’altronde..non è stata effettuata l’ennesima variante che avrebbe risolto in parte il problema, con una sorta di pilastrino che alla base collegasse, a mò di cordolo di collegamento, i due piloni perché pare costasse circa 700 mila euri…(capirai..la variante che l’avrebbe reso un pò più corretto e sicuro non è stata fatta, però i 12 milioni di euri sono stati comunque spesi).
E ce ne sarebbe…il Prof. Laner accennava ad un errore progettuale iniziale della campata centrale, che dimensionata nel modo previsto sarebbe rimasta perfettamente incastrata nel Canal Grande proprio sotto Rialto dato il particolare raggio di curvatura.
E dell’ovovia ne vogliamo parlare? Un mezzo per rendere il ponte fruibile da tutti…peccato che tutti non siano rincoglioniti visto che l’ovovia ci impiegherà (se e quando sarà realizzata) ben 17 minuti ad andare da una parte all’altra del Canale e altri 17 per tornare…il vaporetto, tranquillamente utilizzabile anche dai diversamente abili, ce ne impiega 2 di minuti..e passa circa ogni 5 minuti.
Gli scalini con le pedate in vetro (peròpiù ruvido rispetto all’altro ponte realizzato dallo stesso magico progettista..eh bè..è più ruvido, mica siamo qui a lanciare i dadi), le alzate in pietra a spigolo vivo (così se si cade, cosa non proprio improbabile) si percepisce meglio la pietra (sarebbero contenti gli organizzatori di Città di Pietra, un’opera quasi stereotomicamente perfetta!) e il corrimano in una lega di rame-ottone (ma su questo non ci giurerei)..che probabilmente si surriscalderà al sole..
Per non parlare delle suggestioni anatomiche-ortopediche che hanno ispirato l’enfant prodige nel progetto della struttura vera e propria.
Dell’Architettura sono rimaste, a mio modestissimo avviso, solo le buone intenzioni.

Mi viene da pensare, nell’ingenuità che mi contraddistingue, quanto sia importante l’aver sbloccato uno stallo in una città storica come Venezia, finalmente largo all’architettura nuova, contemporanea. E va bene anche il discorso dei “germi positivi” di rigenerazione e di tutte le altre belle parole di fuffassiana memoria.
Però mi chiedo: non hanno fatto costruire a Le Corbusier, Wright e Kahn. Era proprio necessario sbloccarsi ora, con Calatrava? Dico..abbiamo aspettato 50 anni…potevamo aspettare un altro pò…”

S. C.

Che dire? … come dargli torto? …
Ma, probabilmente, …
Le Corbusier, Wright e Kahn …
non bazzicavano … l’Opus Dei …

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24 risposte a Il gradino di Santiago …

  1. Davide Cavinato ha detto:

    Sugli errori progettuali, poco da dire. Come c’è poco da dire sul fatto che TUTTA LA FACCENDA, molto italiana, faccia rabbrividire. Ribadisco però il concetto che questo non diventi un ulteriore cavallo di battaglia di chi per principio sostiene che non ci sia più spazio per niente nel tessuto delle città. Sennò ci sarà sempre un Wright, un Le Corbusier o un Kahn che si vedrà respingere un progetto, magari, magnifico.

  2. memmo54 ha detto:

    E’ quel “magnifico” che lascia perplessi !

  3. luca ha detto:

    “non hanno fatto costruire a Le Corbusier, Wright e Kahn. Era proprio necessario sbloccarsi ora, con Calatrava? Dico..abbiamo aspettato 50 anni…potevamo aspettare un altro pò”

    così corravamo il rischio che a progettarlo fossi tu, per fortuna hanno anticipato i tempi e l’hanno dato a Calatrava,…..tu continua a studiare!

  4. Sergio Cardone ha detto:

    Leggo su Corriere.it di oggi: “Lo studio dell’Architetto Catalano: “è un lavoro per niente complicato o costoso”. Le cadute sul Ponte della Costituzione: “Sostituiamo i gradini”. Somontaggio e montaggio sono possibili in una sola notte, due a massimo …” .
    Vi riporto il link: http://www.corriere.it/cronache/08_settembre_30/calatrava_ponte_venezia_7c8e9d86-8f0d-11dd-8a6d-00144f02aabc.shtml
    Potenza di un articolo di Archiwatch! Scherzo naturalmente..
    A Luca voglio rispondere che mi spiace se ho dato um’impressione sbagliata, la “spocchia alle vongole” (più volte di passaggio in qualche commento del blog) non mi appartiene.
    Volevo solo dire che c’è poco di soggettivo, ci sono errori progettuali oggettivi..e che in un’opera così importante, pubblicizzata, marchettata bisognava pensarci prima…
    …il succo del mio intervento, se non si fosse capito, è: in una città storica in cui i migliori non hanno potuto costruire (concordando comunque con Davide Cavinato sul fatto che questo non debba diventare un alibi per le varie Soprintendenze) è proprio necessario ricorrere alle griffe che comunque non garantiscono buoni risultati oggettivi (tempi e costi di realizzazione, costi di gestione, funzionalità e fruibilità dell’opera ecc.)?
    Non sto dicendo che il ponte sia bello o brutto, ho volutamente evitato la questione estetica e formale…e francamente il tuo commento poco aggiunge al dibattito.
    Io continuo a studiare…sperando di non progettare mai ponti come quello con pedate in vetro…ribadisco: per certe cose non serve frequentare Architettura…per tutto il resto c’è Mastercard…
    S.C.

  5. franco di monaco ha detto:

    Il progetto di un ponte, non sarà mai una “questione” esclusivamente strutturale, ma anche, e soprattutto aggiungo più modestamente io, un TEMA COMPOSITIVO.
    Ne sono prova il progetto “bocciato” del palazzo dei congressi di Venezia del ’68/’74 di Kahn (guarda caso presenta la tematica spaziale dell’archetipo di un ponte, tradotta in spazio), oppure i disegni del Ponte Fabricio a Roma di Piranesi (interessante, l’interpretrazione “errata” degli archi “circolari”), oppure gli splendidi disegni del Prof Leoncilli Massi (compianto da noi suoi ex studenti) per il Ponte dell’Accademia di Venezia prentati alla Biennale di Venezia del 1985. Ma quella Biennale era diretta da Aldo Rossi e purtroppo entrambi non ci sono più….
    saluti
    fdm

  6. luca ha detto:

    Infatti c’è poco da aggiungere a questo dibattito,…..io ho camminato su quel ponte il giorno 13 sett. faceva brutto tempo, vento e piogerellina, il rapporto pedata alzata e il raddoppio delle pedate sono perfetti, non si cambia mai passo e il ponte si supera in modo gradevole inoltre i vetri sono già antiscivolo ma purtroppo qualche sbadato si inciampa sempre e come dice il primario Paolo Pennarelli del pronto soccorso: «Ci sono arrivate meno di una decina di persone, e comunque di casi di questo tipo ne abbiamo sempre diversi in una settimana. A Venezia, queste cadute sono naturali». (anche questo lo riporta il corriere)

  7. isabella guarini ha detto:

    La notizia dei gradini a pedata variabile del Ponte di Calatrava sul Canal Grande in Venezia, è una questione che ne ripropone un’altra riferita alla dimenticanza del costruire a misura d’uomo. Per me che sono nata in un centro montano dell’Appennino campano, l’uso della rampe a gradinate per superare i dislivelli della accidentata orografia è innato, ed anche a Napoli dove le caratteristiche scale e gradinate urbane sono immortalate persino nelle canzoni: scalinatella longa longa, curtulella curtulella, portame a chella ‘nammuratella. Dall’uso di questo straordinario patrimonio di arte stradale ho appreso che l’improvviso cambio della dimensione della pedata non è ammesso, specialmente dove c’è pioggia e neve. Un’arte antica che ha prodotto preziose sistemazioni urbane, da quelle più semplici medioevali dei paesi collinari a quelle monumentali, come Trinità dei Monti. La gradinata di cui sono appassionata osservatrice è quella che conduce alla Piazza del Duomo di Spoleto, che è un vero monumento all’arte del raccordo dei dislivelli Così poteva essere il raccordo agli appoggi del ponte sul Canal Grande. La variazione dell’alzata non è micidiale come quella della pedata. Ancor più se s’impegnano le rampe finali, come si usava per gli ultimi piani degli edifici sino a non molto tempo fa. Comunque, l’alzata di una gradinata ben comoda non deve superare i quindici centimetri, che consentono una salita senza sforzo come si camminasse. L’ho rilevato dallo scalone del Palazzo Reale di Napoli. I gradini di diciassette centimetri si posso fare solo per pochi gradini e per scale di servizio, come la scala a chiocciola della Maison Savoye, ma, la trovata di Le Corbusier della rampa senza gradini in cemeto armato che porta al tetto giardino della casa, taglia la testa alla questione, sempre con riferimento alle antiche strade in pendenza per il superamento dei dislivelli naturali. Una via artificiale come tante, ma la variazione della pendenza non può essere mai improvvisa.

  8. PEJA ha detto:

    Bhè, bella questione davvero. Ci si è schierati, come al solti tra progressisti e reazionari.
    Però giudichiamo il ponte per la sua architettura. Effettivemetne è piuttosto mediocre in confronto a ciò che ha fatto Calatrava in precedenza. Probabilmente avrà avuto delle inibizioni causate dal tipico comportamento degli intellettuali dell’architettura italiana, che quasi con gaudio si interessano subito sui punti deboli di qualsiasi opera più o meno innovativa (?).
    In realtà però nessuno ha giudicato ancora il vero problema del ponte, che proprio il suo design. Il ponte di Calatrava è anonimo, non sembra l’opera di un guru di una corrente architettonica autonoma. È linguisticamente piatto, non arde.
    Questo è il problema del ponte, non la burocrazia.

  9. gabrielemari ha detto:

    Perché sarebbe così evidente che i gradini “non possono e non devono essere in vetro” io non l’ho capito.
    Sull’articolo del corriere si spiega che le cadute sono dovute al cambio di passo delle pedate, sarebbe una questione percettiva, non di vetro scivoloso. Se è davvero così allora non capisco che senso avrebbe sostituire il vetro con la pietra, ma tanto ormai non ha neanche più senso.
    Mi sembra che qualunque opera di architettura finisca sulla stampa non specializzata, qui viene attaccata a priori come se fosse l’origine di ogni male.

    Io il ponte non l’ho visto, quindi non so proprio che dire, ma mi sembra che non si contesti tanto il ponte quanto il fatto che l’ha progettato Calatrava. Perché le archistar sono i nemici da criticare sempre!
    Mi sembrano le scaramucce che si trovano sui blog di videogiochi tra i fan della playstation e quelli della xbox, o in quelli di auto tra Alfisti e Audisti. (per la cronaca, sì li frequento entrambi, come mi disse Pietro Pagliardini “leggo troppa spazzatura”)
    Qui invece “archistar sì” vs “archistar no”…
    Sinceramente a me non interessa molto se il progetto è firmato da qualcuno che conta oppure no. La validità del progetto è nel progetto stesso. Perché è vero che una firma non è sinonimo di qualità, ma non fatemi credere che se a progettare fossero studi senza arte né parte, allora otterremmo risultati migliori…

  10. Pietro Pagliardini ha detto:

    a gabrielemari. Purtroppo le architetture dei guru, come li chiama peja, finiscono troppo sulle riviste non specializzate ma non per essere criticate quanto per essere esaltate come un nuovo modello di auto, una linea di abbigliamento, un telefonino cellulare di tendenza. Su un punto peja ha ragione: il progetto va giudicato per quello che è e quel ponte, pur portando il segno di un bravo “designer” che ha anche il pregio di avere spesso buone intuizioni strutturali, è sbagliato perché è una bella passerella adatta ad un parco, a collegare due sponde di un fiume o a passare sopra una strada ma..non è adatto a Venezia, come non sarebbe adatto accanto a Ponte Vecchio a Firenze.
    I gradini di vetro a pedata variabile sono un’aggravante ed è singolare che il progettista abbia dichiarato ad essere disposto a sostituirle con la pietra, visto che viene decantato proprio per il vetro. Tra l’altro questa scelta del vetro, certamente suggestiva, mi sa tanto di progetto di arredamento di un negozio più che di materiale adatto ad una pavimentazione urbana.
    Soprattutto è diventato un atteggiamento stucchevole il fatto che ogni architetto di grido debba lasciare il proprio marchio, noioso e riconoscibile, in ogni dove, senza interpretare minimamente il luogo.
    A Venezia ha insegnato un architetto bravissimo che non lasciava brand o marchi di fabbrica ma che era capace di adeguarsi e piegarsi ogni volta al tema ed era Gino Valle. Difficile per i non addetti ai lavori riconoscerne la firma e questo è una qualità, non una mancanza di qualità.
    Certo, l’accanimento burocratico non piace neanche a me perché se quell’opera era sbagliata e non rispettava le leggi se ne potevano accorgere anche prima, visto che ad un comune architetto controllano anche i rapporti alzata-pedata, la visitabilità dei bagni ecc. Se è stata concessa una deroga, come è possibile e forse anche giusto, si abbia il coraggio di difendere quella scelta e si chiuda il discorso.
    Ma il progetto va giudicato come tale: per me modesto in sé stesso e sbagliato come atteggiamento culturale generale, per altri invece un grande passo in avanti perché lascia il segno indelebile del nostro tempo su una città che altrimenti, dicono, sarebbe un museo. Ma cos’altro può essere una città con quei milioni di turisti ogni anno se non un museo all’aperto! Che cerchino di mantenerlo meglio, invece, quel museo.

    Saluti
    Pietro

  11. memmo54 ha detto:

    Vibra che è una bellezza !
    Non potrebbe essere altrimenti !
    Figuratevi qundo vi passerà sopra l’intera sezione C in “gita premio” alla scoperta delle decantate bellezze delle calli !
    Rimbalzerà come un pallone sull’asfalto !
    Sembrerà di stare in qualche attrazione da luna park.
    E i giunti vetro-acciaio ? Credete, forse, che ne trarranno giovamento ?
    Il ponte “deve” essere stabile ; “deve” rappresentare un “solido collegamento” .
    Non si può muovere sotto a seconda dei carichi ! e neppure essere continuamente “monitorato” !
    Deve esserci un margine sufficiente: per cui se “scende” di 3 cm da una spalla non viene giù tutto il ciborio. (…dicono, relata refero, che nell’antica Roma il “pontifex” fosse un personaggio pittosto importante e che l’appaltatore dovesse garantire il lavoro per 50 anni almeno !…Godremo delle stesse garanzie ? )
    Questo è poi lo stesso motivo per non può essere di vetro.
    Un materiale va messo dove ci si aspetta di trovarlo: dov’è naturale che sia ! E non c’è “progresso” ed “innovazione” che tenga : in 80 anni di “famolo strano” il giochetto dell’ “eversione” è diventato alquanto stantio ! Fossimo agli anni venti del secolo scorso, forse…. ma oggi ?
    Qualsiasi foruncoluto ed occhialuto ragazzotto di periferia gioca a fare l’avanguardia artistica forte di un globale disorientamento !
    Abbiamo visto, in questo frangente, di tutto e di più…. pubblicazioni di case progettate con le caciotte o con i mattoni d’alluminio ( siamo a corto d’argilla ?… ci manca la terra? .. ).
    Che cosa non è passato per la testa dei pastrufazioti…
    Si può continuare a fare concorrenza ai designer, agli stilisti, ai vetrinisti, hairstylist e sciampisti ? O bisogna riposizionarsi su un altro piano… forse un pochino meno charmant, ma più responsabile ?.
    Lotta ìmpari….ma forse…

  12. franco di monaco ha detto:

    Adesso si vorrebbe valutare l’architettura secondo l’ottica “del design…che non arde”…Ecco il punto: si considera l’Architettura Design…abissale ignoranze-da ignorare…E pensare che Le Corbusier, citato qui più volte, nel visitare una mostra dedicata a Terragni disse “questa è opera di un Architetto”….ma davanti aveva il progetto del Danteum…..Altro “designer” direbbe il caro Peja.
    saluti
    fdm

  13. Biz ha detto:

    Al di là delle considerazioni di Isabella Guarini, se uno studente, o un giovane di studio, porta un disegno con una scala in luogo pubblico avente un rapporto alzata – pedata variabile, lo si prende, giustamente, a PEDATE!
    Insomma … parrebbe UN ERRORE DI GRAMMATICA E ORTOGRAFIA.

  14. sergio 1943 ha detto:

    Dal mio piccolo angoletto di casa mi sono scagliato inviperito (d’altronde avevo a disposizione solo questo lodevole blog!) contro l’Ara Pacis di Meier, contro il parcheggio del Pincio, mentre contro il Maxxi di Zaha Adid non c’ho niente da ridire; ancora non ci si capisce una beneamata! Mi sembra almeno che tanti danni non possa fare, inserita com’é tra gli edifici esistenti, cosa che ha fatto pure Piano a New York con l’ampliamento della Morgan Library. Altrettanto non ho niente da ridire contro il ponte di Calatrava. Mi sembra aereo e elegante nella sua trasparenza acquorea come é giusto che debba essere un ponte a Venezia. Calatrava ha dato una congrua risposta progettuale con il suo leggero arco dimostrando di sapersi trattenere dai suoi soliti ponti strallati (cosa che non ha umilmente saputo fare Meier a Roma!). Mi sembra che tutta la querelle contro Calatrava nasca dal fatto che qualcuno, distratto da tanta Serenissima, abbia sbattuto il naso per terra. Bene! Giorni fa ho visto una grassa turista inciampare in un sampietrino attraversando Ponte Sisto e cadere lunga per terra! Dobbiamo prendercela con Baccio Pontelli?
    Anni fa venne proposta una soluzione matericamente simile, vetro soprattutto, (forse, e lo chiedo a franco di monaco, era il progetto del Prof. Leoncilli Massi?) per sostituire il Ponte dell’Accademia, orrendo ibrido tra carpenteria in legno e carpenteria metallica. So che il mio amico memmo 54 a. C., preferirebbe un ponte in pietra d’Istria, malta e mattoni e d’altro canto un secondo ponte in vetro a scavalcare il Canal Grande mi sembrerebbe pletorico per cui mi rassegno: per andare a rivedere il mio amato Giovanni Bellini dovrò, till death will part, sentire i miei passi che rimbombano sull’impiancito in legno.

  15. Salvatore Digennaro ha detto:

    Per fortuna si tratta di un architettura che non “arde”, come afferma qualcuno, altrimenti ci sarebbero code oltre che a traumatologia anche al reparto grandi ustionati, e poi Venezia ha già vissuto quella brutta l’eperienza del rogo (vero) della Fenice, non ha bisogno di altri “incendi”.

  16. Cristiano Cossu ha detto:

    A Pietro Pagliardini segnalo un divertente ricordo delle letture universitarie tafuresche, o tafuriane… Nel suo libro Einaudi sull’architettura italiana del dopoguerra il Maestro Moscovita col sigaro fece fare la figura dei polli tremebondi e passatisti a tutti gli architetti che avevano provato (Giancarlo Leoncilli fra gli altri) a interpretare Venezia col progetto del nuovo Ponte dell’Accademia, e quella degli eroici servitori della dura modernità ad altri che invece avevano fatto semplicemente un ponte (fra gli altri, ricordo Polesello).
    Erano anni eroici e meravigliosamente ideologici… Suppongo che Tafuri il progetto di Calatrava forse l’avrebbe collocato fra i secondi, magari turandosi il naso per la troppa puzza d’incenso e il modesto afflato rivoluzionario, però sempre meglio delle caricature di Venezia che gli sembrava di vedere nei primi… (ora lo sappiamo, non vedeva benissimo, pur essendo un genio).
    Il ponte del buon Santiago è un bel ponte, e ci si passa, magari guardando dove si mettono i piedi e, si, va bene, dopo aver sostituito l’inutile vetro. E’ un ponte veneziano? Lo sarà fra cent’anni, come lo sarebbe stato l’astrattissimo ponte che Palladio disegnò per Rialto se fosse stato costruito. Aldo Rossi ci avrebbe convinto con uno dei suoi strepitosi Capricci, d’accordo, ma purtroppo è morto, e neppure io mi sento tanto bene… Non rimaneva scelta alla committenza! :-)
    saluti
    cristiano

  17. isabella guarini ha detto:

    Vorrei aggiungere quanche altra considerazione al Ponte di Calatrava sul Canal Grande di Venezia. È una impressione-sensazione di Calatrava è snello e leggero, nella forma e nella sostanza dei materiali, anzi è trasparente. Ciò avrebbe fatto incantare gli antichi costruttori dei ponti di pietra e mattoni. e di cattedrali gotiche con cui aspiravano al raggiungimento della volta celeste. Noialtri che abbiamo la fortuna di vedere incarnata la leggerezza dell’architettura stiamo lì a criticare la pur minima variazione di un gradino. Questa è la ratio, ma il sentimento mi dice che quell’ala, prima librata e poi inchiodata alla terra d’acqua, ci conduce agli scenari autostradali extra moenia.Ci lancia, come una catapulta, fuori dalla città, mentre gli altri ponti, grevi di pietra, ci trattengono e ci accolgono nell’interno urbano da abitare.

  18. pasquale cerullo ha detto:

    Io direi che le parti che non funzionano, hanno il destino segnato. Dopo l’entusiasmo della novità, in cui l’estetica gioca il ruolo più importante, la fase della sopportazione e poi quella dell’insofferenza, dopo che ci si è ‘divertiti’ con la pazziella, si passerà alle necessarie modifiche per non pesare troppo sulle finanze del Comune. Così potremo ben dire che alcune architetture nascono, giocoforza come installazioni artistiche, che dopo il periodo di visione vengono smontate oppure in casi eccezionali diventano ‘architetture’ urbane.

  19. franco di monaco ha detto:

    Egr Sergio 1943, il ponte in questione, se mi posso permettere di citare un testo bibliografico, è pubblicato – sia in copertina, sia a pag 46/47 – sul testo “I labirinti, le piazze, le porte e i velari, i ponti, i palazzi, le case, i giardini: architetture di Giancarlo leoncilli Massi” per la mostra organizzata nel 1988 alla Casa del Mantegna di Mantova. Lì il testo è ancora disponibile. Uno splendido disegno del ponte è stato anche la “locandina” della recente conferenza – tenutasi presso l’Università di Perugia, organizzata dal Prof Mario broccolo – ad un annno dalla scomparsa del Professore.
    Saluti
    fdm

  20. Valerio Ricciardi ha detto:

    Cito dall’intervento di Pietro Pagliardini:
    «A Venezia ha insegnato un architetto bravissimo che non lasciava brand o marchi di fabbrica ma che era capace di adeguarsi e piegarsi ogni volta al tema ed era Gino Valle. Difficile per i non addetti ai lavori riconoscerne la firma e questo è una qualità, non una mancanza di qualità.»
    Bravo! Questo mi sembra un punto fondamentale di tutta la faccenda.

    Io non ho visrto ancora il ponte di Calatrava a Venezia; e dopo l’esperienza che ho fatto a Parigi, mi rifiuterei a priori di giudicarlo senza averlo visto, fotografato da due o tre angolazioni, attraversato varie volte con aria distratta bighellonando a zonzo in quella parte della città.
    Mi spiego. Quando vidi pubblicate per la prima volta le foto delle “piramidi” davanti al Louvre, su una rivista generalista (genere Espresso-Panorama-Europeo, per dire), la mia prima reazione metale fu di rifiuto. Vetro e acciaio nel proscenio del Louvre… mi pareva un sacrilegio.
    Poi la prima volta che tornai a Parigi, e le vidi, aggirai, percepii dal vivo, mi dovetti con sorpresa ricredere, perché non percepii alcuna incompatibilità architettonica né urbanistica col contesto in cui erano inserite. Si eran potuti permettere anche un sottile simbolismo col periodo dell’egittomania francese…
    Mentre Les Halles, che in un paio di foto ben fatte mi sembrava una operazione ardita ma dotata di un senso, dal vivo si trasformò in un abominevole incrocio fra un centro commerciale al Casilino 38, una vasca idromassaggio abbacinante con i suoi miliardi di mattonelline tipo bagno in vetromosaico, ed un aquafun riminese… Il tutto ottenuto sacrificando come fosse una vecchia scaffalatura di IKEA l’armonica sinfonia di fusioni in ghisa di Gustave Eiffel? Follia assoluta!
    Perciò sul ponte sospendo il giudizio. Vi saprò dire dopo che l’avrò inquadrato con attenzione sul vetro smerigliato della mia macchina fotografica.

    Un tratto comune di questo genere di problemi però mi sembra saggiamente individuato dal buon Pagliardini. Spesso, da non architetto, ho la sensazione che la volontà di lasciare l’Orma Fatale (come quella selenita di Armstrong), il Segno Imperituro dell’opera del Grande Genio Solitario e Precursore prevalga su una funzione di servizio che la buona architettura dovrebbe sempre porre davanti all’Ego del progettista.

    Non c’è a mio avviso nulla di sminuente nel disegnare e realizzare qualcosa che sia in armonia col “genius loci” di un tessuto urbano o di un paesaggio. Perché da un po’ di anni pare scandaloso non progettare qualcosa di immediatamente riconoscibile? E’ forse prevista qualche sanzione corporale particolarmente degradante contro chi costruisce un edificio che si integri armoniosamente con forme, materiali, colori di ciò che lo attornia?
    E, a maggior ragione, ci si dovrebbe vergognare nel rispettare l’armonia del contesto senza stravolgerla, quando ciò che vediamo volgendo lo sguardo è parte di un tessuto urbano di incalcolabile valore storico? Come se non assumere una posizione graficamente di rottura significasse timidezza creativa, scarsa cognizione del proprio valore e della propria libertà progettuale, in sintesi essere uno sfigato perché non si ha il “coraggio della firma”?

    Guardate nel settore del design automobilistico.
    La Peugeot 406 coupé di Pininfarina, una purezza di linee in cui sembra che la matita non sia mai stata sollevata dal foglio, si vocifera fece irritare la Ferrari, perché riconosciuta a colpo d’occhio dai dirigenti del Cavallino Rampante come più bella della media delle loro vetture; uscita di produzione, è stata rimpiazzata da una 407 coupé in sé non brutta, ma caratterizzata pesantemente dal ridicolo family-feeling del frontale voluto fortissimamente dal marketing della Casa del leone: calandra smisurata e assai antropomorfa (una enorme bocca spalancata), marchio a simulare… il naso di Topolino, fari che debbono essere “occhi” lunghi, cattivi e feroci. Non mancano nemmeno degli sfoghi d’aria davanti alla portiera, dietro il passaruota anteriore, ad evocare le branchie di uno squalo (ecco di chi era la bocca ferocissima). Fra quarant’anni, quale dei due coupé (406 o 407) nei pochi esemplari rimasti sarà oggetto di collezione e amorevoli restauri dopo essere stata iscritta al registro dell’ASI?

    Firma non deve significare gridare il proprio nome sovrastando quello di coloro che, attorno a ciò che firmiamo, vorrebbero con la propria più anonima ma non meno operosa vita poter sommessamente pronunciare il proprio. E se si hanno gli attributi, non c’è bisogno di declamare la paternità della nostra opera, giacché se essa è bella, anche se cerchiamo di passare umilmente inosservati ben presto molti chiederanno “chi è che ha progettato ciò?”.

  21. gabrielemari ha detto:

    Guarda Pietro, non ci crederai ma condivido quasi tutte le tue osservazioni, con l’unica differenza che a me il ponte non dispiace.
    Condivido soprattutto le parole su Gino Valle. Tanto per capirci, nella mia libreria c’è una sua monografia, non certo quella di Calatrava…

    Saluti

  22. Pietro Pagliardini ha detto:

    gabrielemari, ci credo eccome perché siamo spesso d’accordo, avendo entrambi un approccio al problema (almeno leggendo i tuoi vari commenti) piuttosto concreto e poco ideologico, salvo la mia dichiarata faziosità contro le Archistar.
    Quanto al fatto che ti piaccia il ponte non mi sembra un reato. Lo definirei invece un peccato ma non spetta a me giudicare in quale girone collocarti.
    Scherzo, ovviamente, l’ho già detto il mio parere. Calatrava li sa fare i ponti, magari saperli fare come lui! Però in questo ponte c’è qualche peccato d’orgoglio e qualche pedata sbagliata. E comunque io non glielo avrei fatto fare a Venezia, neanche con le pedate giuste.Tutto qui.
    saluti
    Pietro

  23. maurizio zappalà ha detto:

    Cari storiagrafi-architetti, leggendo divertiti delle cadute sul (in, per, tra, fra) ponte. Siamo stati in giorni di pioggia a Venezia sul ponte . Scorazzammo in su per tra fra il ponte.Neppure un barcollìo, ma tanta goduria. E il mio amico Tino dice: “Come al solito, quando ci sono io, non succede quello che capita agli altri. A scuola, ad esempio, c’era una ragazza bellissima che secondo il giornale d’istituto stava con tutti. Mai con me! Delle tre una: non funzionava il giornale, non funzionavano gli altri, non funzionavo io. Ma funzionava la ragazza, funziona il ponte quem ut non potuit tangere ait: Nondum acerbus (il pons) est”. Insomma, un miserabile paese di volpi che non sanno cosa farsene della modernità e dell’eleganza e del coragggio!

  24. Raimondo Giuseppe ha detto:

    Sono perfettamente in accordo con il commento di sergio1943, escludendo l’ara pacis a roma, ma la domanda che mi pongo, i grandi architetti e la grande architettura dovrebbe aiutare a risolvere i problemi nelle nostre città o sbaglio? Perchè allora Calatrava ha commesso degli errori così grossolani, eppure stiamo parlando di un gesto architettonico, ovvero il collegamento fra due sponde di terra, che ormai si fa dagli albori della storia ed ancor più grave se si considera che tale progetto è stato fatto da una specialista in questi campo. Questa domanda si pone da preludio ad un mio modesto parere che avrebbe la presunzione di divenire dibattito…la ricerca e la sperimentazione in architettura ci sta portando a questo? al Quai Branly Museum di Nouvel che perde acqua e a tanti altri clamorosi errori?

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