“Dobbiamo ricominciare dai singoli e da piccole minoranze, da formiche pazienti e da asini testardi …”
Goffredo Fofi, “Da pochi, a pochi; appunti di sopravvivenza”, Eléutera ed., Milano, 2006.
“Che fare? L’eterna domanda. Le mutazioni ci travolgono e cambiano il mondo senza quasi che ce ne accorgiamo. La politica è diventata pratica di occupazione delle istituzioni e dei luoghi di potere da parte di gruppi che si accusano vicendevolmente di corruzione… i movimenti nascono e muoiono velocissimamente e mandano i loro leader in parlamento… il terzo settore, il volontariato e le ong pensano al benessere proprio più che a quello di chi dovrebbero assistere… i media sporcano tutto ciò che toccano e aumentano la confusione e la dipendenza dal «sistema»… Goffredo Fofi, bastian contrario di sempre, cerca i modi per capire e districarsi, cerca le strade per reagire a questa immane confusione di idee, nel rifiuto di considerare separati il pensiero e l’azione, la teoria e la prassi. Cosa possono le minoranze? quali sono oggi quelle «frequentabili»? come trasmettere ad altri i valori e l’esempio di quelle più degne, di ieri e di oggi? come gridare nelle circostanze attuali il nostro “non accetto”? cosa trasmettere agli altri delle nostre acquisizioni? e come?”
questo il risvolto di copertina di un libretto di poche pagine, lucidissimo e illuminante nel quale Fofi affronta l’Italia di oggi: quella degli assessori alla cultura e degli omonimi ministri, “i peggiori nemici della cultura … che passano il tempo a inventare occasioni di festa, che chiamano cultura” … quella della “bruttezza che non svanirà” nonostante l’opulenta rincorsa all’apparenza … quella dove, insieme alla Bellezza, è sparito anche il silenzio … quella dove una sedicente cultura “media” ci assedia attraverso una pervasiva “miseria dell’immaginario”… ove merce e arte si scambiano i ruoli …
“La bruttezza non svanirà neanche dall’ambiente. Le città si sono trasformate in garage ad autopiste (diceva Carlo Levi: la strada è la casa degli italiani; quanti secoli fa?) I centri storici, lavati e sciacquati pietra per pietra, e invasi da venditori di ninnoli tutti uguali da Firenze a Katmandu passando per New York e per Adelaide e magari anche per Macondo e Donogoo-Tonke e la contea di Yoknapatawpha. Musei dovunque e dovunque turisti. E i pub al posto delle osterie, i MacDonald’s al posto delle trattorie, delle latterie, delle friggitorie. Tutti uguali, ma tutti acchittati, disegnati da architetti DOC – o meglio: da scenografi zeffirelliani alla Gae Aulenti, stupratrice di storiche piazze, da creatori di luci alla Storaro che illuminano di broadwayano sublime i monumenti famosi, da architetti giapponesi e milanesi scatenati nell’invenzione speciale e nella pretesa di unicità, un pezzo dell’immensa rete collettiva di quella bischeraggine yankee che ha travolto il pianeta.” …
“ … si ha bisogno, in arte, di un radicalismo non gratuito, e di un’assunzione di responsabilità alte e maggiori – mentre invece ciò che si continua a propinare sono pasticcini mielati, meschine malinconie, finte denunce, effetti speciali, fantasie morbose, spettacolarizzazioni del male, eccitanti anestetici, droghe e cose simili” …





Completamente d’accordo! Anche l’università è diventato un luogo dove “mediamente” si fa ricerca rincorrendo l’innovazione della ricerca, in realtà faccia triste della novità piuttosto che approfondimento di nuovi tentativi di interpretazione.
Un appunto però a Fofi va fatto: negli anni ’90 è stato protagonista della nobilitazione dei cosiddetti neomelodici che imperversavano (ancora oggi) a Napoli e dintorni, prodotto da sottoproletariato culturale, inducendo la valutazione da snobismo aristocratico per chi continuava a considerarli ciarpame da sottocultura.
Quando gli intelettuali s’interessano di Napoli, da lontano, senza vivere la cruda realtà quotidiana, cadono facilmente in contraddizione e perdono lustro perchè vorrebbero salvarla dalla caduta nel buco nero dell’autodistruzione. Napoli vive da circa tremila anni e non credo che potrà essere diversa da quella che è. Allora sì che non esisterebbe più. Non è rassegnazione, ma accettazioe di un processo millenario, per cui ogni ramoscello d’oro ritrovato si trasforma man mano in selva tenebrosa. Catarsi e degenerazione sono la linfa che mantiene in vita Napoli, che non ha bisogno di salvatori, ma di amici disponibili ad accettare la sua natura metamorfica. Nel tempo odierno, il ciclo della metamorfosi è breve, anzi istantaneo. Si passa dalla notte bianca, alla crisi dei rifiuti urbani al mattino, e ciò che di notte era bianco diventa oscuro di giorno. Ma qualcuno aveva detto il contrario, ovvero che di notte tutte le vacche sono nere. Boh!
“Vedi Napoli e poi mori”.
A Pathetic Tale Il Conde. Joseph Conrad 1909.
una storia di scippi e rapine.