“DA QUALCHE PARTE IN CANTINA” …

sergio 43 commented on L’anima de li mejo programmi didattici …

“Non volevo toccare questo argomento anche se molti ultimi capoversi del blog mi avevano smosso assai. Mi dicevo: “Buono! Lascia perdere!”. Ma qui e adesso è rappresentato, con i nomi della gang, addirittura il luogo del delitto e dello spreco di una generazione! Guardavo il planivolumetrico di “ROMA 1967″ del 12 sett. e mi ricordava uno dei disegni per la tesi. Sta da qualche parte in cantina in un cilindro di cartone ed è tanto simile a questo elaborato. Altri colleghi di quel tremendo quinquennio avranno da qualche parte lo stess planivolumetrico in bianco e nero, con grande uso di china per le ombre e le stesse stereometrie. Chi l’avrà relegato in qualche angolo nascosto, chi ci avrà acceso il caminetto, qualcuno l’avrà pure venduto ai tempi dell'”architettura disegnata”. La “Tendenza”, linea suggestiva come poche altre, sostenuta da poderose (sic) riviste che offrivano un linguaggio sicuro dopo tanti Modernismi zeviani che oramai “risalivano in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”, ci guidava la mano. Il disegno veniva abbastanza facile, bastava riga e squadra, angoli a 90 o 45 gradi e non i laboriosi curvilinei. D’altronde eravamo pure studenti che non vedevano l’ora di chiudere quel lungo periodo di traumi. Mi ricordo che molte tesi fortunatamente finivano praticamente a questa scala o giù di lì. Io invece mi incaponii a scendere di scala. D’altronde il tema che avevo scelto sviluppava una parte del P.R.G. della città nelle Marche dove ero nato. Era stato appena approvato e avevo un pò lavorato nello studio dell’urbanista che lo aveva disegnato (poi, come il P.R.G. di Roma del 1962, venne buttato alle ortiche dalle forze politico-economiche locali, interessate a ben più concreti interessi fondiari, dimostratisi poi logicamente devastanti). Quindi ero pieno di fiducia. Scesi al Piano Particolareggiato, arrivando alla fine a disegnare il progetto architettonico vero e proprio di un importante Polo Scolastico (ne feci anche un plastico niente male che adesso, a differenza dei disegni nascosti nell’umidità, sta, ricordo di gioventù, ancora appeso proprio sopra il P.C. dove sto scrivendo). Quale era il problema, la trappola che inconsapevolmente mi ero scavato da solo? Più scendevo di scala e più gli elaborati si arricchivano di dettagli e in quei dettagli riaffioravano tutti gli insegnamenti assorbiti, dai primi corsi di Elementi di Composizione alle Composizioni successive. Succedeva, ed io ne ero consapevole per primo, che in una tavola affiorava Quaroni, in un’ altra appariva Perugini, ecc.; Saverio Muratori no, pur avendo fatto un esame con lui. Troppo intellettuale! Così, come una pallina di flipper, mi sbattevo alla ricerca di un relatore, venivo respinto, giustamente dal loro punto di vista, da un assistente all’altro. Ricordando quei giorni, la descrizione che Giancarlo Galassi, in “SCUOLE ROMANE” del 13 sett., dà della situazione e confusione in cui era facile incorrere, ne è testimonianza perfetta. Ho letto inoltre con piena partecipazione l’articolo di Renato Nicolini ed altri in “LOTUS” 1970 pp. 136 – 137 che, sempre il 13 sett., Galassi ha ricordato in “DISEGNI (degli scolarchi) ROMANI”. Soprattutto nell’ultimo capoverso dell’articolo, alla luce dei miei trascorsi strazi, ho rivisto il ragazzo scombussolato che ero.
“…..Non è un caso che proprio su Roma (ma, dico io, il discorso coinvolge ben altro che solo Roma e solo quegli anni) non sia stata fatta alcuna ricerca scientificamente fondata e che recentemente il tema dell’intervento sulla città sia stato posto e svolto unicamente nella forma dell'”ambientamento”, sia esso in positivo o in negativo, con temi progettuali la cui caratteristica è il massimo grado di genericità astratta, da cui si dovrebbe riscattare mediante la mistificata concretezza del dettaglio”.

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2 Responses to “DA QUALCHE PARTE IN CANTINA” …

  1. :G ha detto:

    Caro 43
    (uso il numero e non Sergio perché paradossalmente mi piace parecchio, sempre che qualcuno non se la prenda troppo per apologia dell’anonimità)
    caro quarantatré,
    grazie per avermi chiarito con un ricordo l’ultimo paragrafo di Accasto Fraticelli Nicolini in cui avevo fatto confusione, anche perché tradurre in demotico il geroglifico dei tre mi aveva rotto, e spiegato bene una crisi didattica in cui tutti siamo passati e che è un ostacolo con cui deve fare i conti chi si iscrive ad Architettura e siano le matricole avvisate e quelle intelligenti si preparino alle contromosse (che sono solo essere curiosi, studiare, leggere, disegnare anche quello che non è inerente ai programmi).

    Quante volte alle revisioni capitano architettini in nuce che difendono con testardaggine, ottusità, schematicismo le loro scelte progettuali perché al primanno gli hanno insegnato così, e così allora è sicuro che va fatto: “Aah professo’?! Ecche me fai ricomincià da capo?”.

    Il più delle volte c’è la resa del docente perché impietosito da tanta sofferenza di cui è causa nel piazzare tanti ostacoli insormontabili davanti allo studente per il quale pare sia un massacro, una fatica di Sisifo, ‘n’ammazzata! il dover tornare in biblioteca a leggere, anzi, a imparare a leggere, cosa che si fa solo leggendo (come per andare in bicicletta) e studiare da autodidatta quello che in una facoltà come la Giuliaquaroni con così tante ideologie tra le sue mura devi per forza imparare da autodidatta.
    (Ma un discorso del genere forse, si dovrebbe fare anche per molti docenti, d’antan e non)

    :G

  2. sergio 43 ha detto:

    Caro Giancarlo,
    solo per aggiungere, seduti al bar come due distinti signori davanti a due tazzine di caffè, un dettaglio curioso a questo curioso “As we were”. Alla fine trovai un professore che accettò, perplesso e divertito, le mie spiegazioni. Gli dissi che concettalmente nella mia ricerca ero stato guidato da un film di Michelangelo Antonioni di quegli anni: “Blow Up”. Come il fotografo David Hemmings, avevo inizialmente fotografato (momento alla “Tendenza”) la foresta come soggetto in cui le forme raggiungono il massimo di “genericità astratta”. Con gli ingrandimenti successivi, variando di scala, intendevo raggiungere un immagine dell'”ambiente” sempre più dettagliata (a questo punto, logicamente, terminavo la mia difesa davanti al mio giudice). Con le tavole successive (l’ho capito tempo dopo) distinguevo, via via, gli alberi, poi i cespugli, (momenti alla Zevi, alla Quaroni, alla Roisecco, alla Perugini, in ordine variamente sparso per aumentare la confusione!), poi il cespuglio (momento alla Sergio 43) e alla fine, botto finale, i piedi del cadavere nascosto dal cespuglio stesso. Come la trama del film, la mia tesi era la testimonianza di un delitto (o un suicidio?) avvenuto (cinque anni di corso) in un luogo ben definito (Valle Giulia). La tavola che concludeva il discorso era come la traccia che si fa disegnando con il gesso la sagoma della vittima sul terreno. Questo è un discorso da cinefilo o da architetto? Per me i due discorsi si identificano. L’unica differenza è che il cinema nasce come “mistificazione” fin dall’inizio, l’architettura ha voluta diventare “mistificazione” con il tempo, facendo tutto da sola (o da sòla?).
    Finiamola qui, caro Giancarlo, altrimenti mi sento come il classico vecchietto, altro che distinto signore!, che seduto sulla panchina cincischia e blatera con chi lo vuole stare a sentire di cose del secolo scorso usando come prova a sua discolpa un vecchio articolo di “LOTUS”. (Saranno solo cose del secolo scorso, poi? Mia figlia, con il minimo di confidenza che si può avere col padre, mi ha svelato cose analoghe per la sua generazione e chissà a chi si riferiva quando mi ha sbattuto: “Papà! Quelli della tua generazione sono i peggio!” e anche te ci hai messo il pepe con la tua testimonianza di studente e adesso di docente)

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